L’arte programmata (1962)
Olivetti è la prima grande azienda italiana che in qualità di committente sponsorizza una mostra d’arte, sulla base della convinzione che la produzione industriale è il centro dell’azione dell’uomo e che l’arte deve raccontare il valore dell’innovazione. Nel maggio del 1962 nel negozio Olivetti di Milano, in galleria Vittorio Emanuele, a due passi dalla Scala, si apre la fortunata mostra di «Arte Programmata» che vede animatore principale Bruno Munari con la collaborazione di Umberto Eco e la presenza dei gruppi artistici Gruppo T di Milano, Gruppo N di Padova (i cui partecipanti firmano le opere in modo collettivo, dotandosi di una metodologia di lavoro tipica della ricerca scientifica) assieme ad alcune figure isolate come Enzo Mari e, successivamente, Getulio Alviani. La mostra, che porta i sottotitoli di arte cinetica, opere moltiplicate e opera aperta, verrà poi spostata a Venezia nel negozio Olivetti allestito dall’architetto Carlo Scarpa, per transitare successivamente a Roma, Düsseldorf, Londra e in vari musei americani. L’esposizione è composta da opere in cui le componenti vengono messe in movimento da motori elettrici. La programmazione, basata su un equilibrio instabile tra regole ed elementi di casualità dovuti al tipo di materiale utilizzato ed alle forze fisiche in gioco (l’attrito, la gravità, la forza elastica, la forza magnetica, la dinamica dei fluidi), provoca infinite permutazioni al punto che l’opera d’arte si caratterizza proprio per una forma indefinita. La denominazione di «arte programmata» è accreditata al curatore-artista Bruno Munari ed ha ancora dei legami con i principi futuristi del movimento e del dinamismo. Gli artisti stabiliscono delle regole e studiano le possibili varianti. Gianni Colombo, esponente di punta del gruppo milanese T (la lettera indica la dimensione «Tempo» che entra in gioco in ogni composizione mostrando la variazione temporale di una forma), presenta una «strutturazione fluida» costruita con un lungo nastro di materiale plastico trasparente, racchiuso dentro una scatola di cristallo, che mosso da un motore genera per accumulazioni casuali immagini sempre diverse. Davide Boriani inserisce in un disco con scomparti irregolari della polvere di ferro che viene spostata da calamite poste sul retro del disco azionate da motori elettrici. Munari crea «nove sfere in colonna» che contengono dei segni bianchi. La prima sfera in basso è posta su una puleggia azionata da un motore che muove casualmente e per attrito tutte le sfere incolonnate dentro una struttura in cristallo essenziale e minimale. Il gruppo N di Padova presenta una serie di opere tra cui una «visione dinamica» in cui si ha un movimento apparente di colore determinato non da un motore, ma dal movimento dello spettatore stesso. Questa esposizione fornisce un grande impulso alle ricerche cinetiche e percettive che indagano ogni aspetto della nostra visione e che mettono al centro dell’opera l’interazione con lo spettatore attraverso una forma «aperta», instabile, filosoficamente ed esteticamente interprete di una realtà in continua e rapida evoluzione. Da un punto di vista compositivo gli artisti traggono spunti dalla fisica e dalle matematiche, le opere nascono da una progettazione e la loro realizzazione richiede competenze tecniche non più artigianali ma industriali.
L’arte come ricerca (anni ’60)
Milano, quale centro industriale del terziario avanzato più importante in Italia, diventa il laboratorio di grandi innovazioni. Gli artisti interpretano la modernità con l’essenzialità, attraverso la deformazione delle superfici pittoriche: monocrome o vibratili, ritmiche e minimali, estroflesse, stratificate, fresate, sagomate, tagliate, forate, retroilluminate. Ricordiamo i nomi di alcuni tra i giovani protagonisti che in quegli anni hanno come maestri e tutor la coppia, quasi complementare, composta dallo «spazialista» Lucio Fontana e «il perfettissimo» Bruno Munari: Piero Manzoni, Agostino Bonalumi, Getulio Alviani, Paolo Scheggi, Enrico Castellani, Enzo Mari e molti altri. Gianni Colombo sviluppa un’idea ambientale di arte modificabile, realizzata attraverso strutture geometriche delimitate da corde elastiche fosforescenti tese in ambienti bui («spazi elastici», ambienti visuo-cine-estetici programmati, figura. L’artista Mario Ballocco, che inaugura all’Accademia di Brera l’insegnamento della «cromatologia», indaga in modo scientifico tutti gli aspetti della percezione, inclusi gli «inganni» della visione, al punto da concepire un quadro come concretizzazione e verifica percettiva di un dato risultato sperimentale. Luigi Veronesi prosegue le proprie ricerche nell’ambito della fotografia e del cinema sperimentale e si occupa di indagare le visualizzazioni cromatiche della musica, mentre Munari usa la macchina fotocopiatrice Rank Xerox per sperimentare con la luce.
L’arte come progetto (anni ’60-‘70)
Nel dicembre del 1959 l’artista Daniel Spoerri presenta a Parigi i multipli delle Edizioni MAT (Multiplication d’Art Tranformable), con opere cinetiche di Albers, Duchamp, Malina, Munari, Soto, Tinguely, Vasarely ed altri. Nel febbraio del 1960 la mostra arriva a Milano, allo spazio Danese (lo showroom di una delle più innovative aziende milanesi di industrial design) e costituisce la prima esposizione in Italia dedicata al tema dell’opera d’arte prodotta in serie (multipli) a partire da un progetto, non come riproduzione seriale di un pezzo unico originale. Spoerri sottolinea quanto sia importante che i multipli abbiano delle caratteristiche cinetiche, di movimento: «Anche se i proprietari di un’opera cinetica prodotta in un’edizione di cento copie hanno pezzi che rispondono alle stesse qualità specifiche, in realtà posseggono un’opera unica perché, in se stessa, cambia continuamente». L’arte entra in produzione in tiratura limitata o anche illimitata, in base alle esigenze della comunicazione. È un tentativo di demitizzare l’artista-star, di avvicinare il mondo dell’arte e della creazione estetica al singolo individuo e alla sua vita quotidiana. «Solo chi confonde il prezzo col valore non dà interesse a queste produzioni» (Munari). L’idea di una ricerca continua si scontra anche con i meccanismi fondanti del mercato dell’arte, centrato sulla costruzione del valore attorno ad opere facilmente riconoscibili (ostentate come status symbol).
Poi arrivano, verso la fine degli anni ’70, il terrorismo ed i cosiddetti «anni di piombo». Il design, dopo un periodo di forte ideologizzazione della realtà, diventa assurdamente iper-decorativo ed anti-funzionale, l’arte mette in scena materiali poveri e una certa banalità di idee, la pittura ritorna al quadro e diventa rassicurante (per il mercato) e citazionista. Insomma si attua un vero passo all’indietro rispetto alle istanze sperimentali che abbiamo brevemente citato.
L’arte ha un futuro?
Bruno Munari una volta scrisse: «quando tutto è arte, niente è più arte». Una constatazione del fatto che quando regna la confusione più totale è difficile poi mettere le cose al loro posto, in ordine. Fuori dalla metafora potremmo dire che questo paradosso è oggi ancora attuale. L’innumerevole quantità, statisticamente parlando, di artisti operanti nei principali centri dell’arte contemporanea ci spinge a supporre che molti di questi, verosimilmente in una percentuale assai alta, non troveranno posto sui libri di storia dell’arte, nonostante la loro pervasiva presenza mediatica. Eppure, in conflitto con il ragionevole assunto statistico appena accennato, il numero degli artisti professionisti è in costante crescita. Ma il lavoro di tutti questi artisti è davvero utile? E a cosa serve realmente oggi l’arte, al di là di ogni ragionevole considerazione sulla funzione di bene di lusso, di rifugio o di investimento ad alta volatilità? L’arte ha senso se questa serve a stimolare la fantasia e la creatività, se aiuta gli individui a formarsi e a realizzarsi secondo la propria natura, se spiega se stessa e se svela i suoi processi, affinché possa essere replicata e compresa all’interno di un processo di apprendimento che si realizza nel momento stesso del fare, seguendo le regole del gioco. Un’arte «esatta», razionale, in grado di alimentare, far evolvere ed espandere in modo continuativo le capacità espressive di ogni linguaggio e cultura visiva. Crediamo si possa interpretare l’arte come uno strumento per raggiungere obiettivi che vanno al di là dei confini stessi dell’opera d’arte, che dunque non può elevarsi a scopo finale di ogni agire artistico. Appunto: l’arte è il mezzo, non il fine.
Bibliografia Vivien Green (a cura di), «Italian Futurism, 1909-1944: Reconstructing the Universe», Guggenheim, New York, 2014 Pontus Hulten (a cura di), «Futurismo e Futurismi», Bompiani, Milano, 1986 Sebastiano Martelli, Franco Vitelli (a cura di), «Il guscio della chiocciola. Studi su Leonardo Sinisgalli», Edisud Salerno, Salerno, 2012 Marco Meneguzzo, Enrico Morteo, Alberto Saibene, «Programmare l’arte. Olivetti e le neoavanguardie cinetiche», Johan & Levi Editore, Milano, 2012 Carolyn Christov-Bakargiev, Marcella Beccaria, «Gianni Colombo», Skira, Milano, 2010 Paolo Bolpagni (a cura di), «Mario Ballocco», Silvana Editoriale, Milano, 2009 Paolo Bolpagni, Andreina Di Brino, Chiara Savettieri (a cura di), «Ritmi visivi. Luigi Veronesi nell’astrattismo europeo», Edizioni Fondazione Ragghianti, Lucca, 2011 Bruno Munari, «L’arte come mestiere», Laterza, Bari, 1966 Guido Ballo, «La mano e la macchina. Dalla serialità artigianale ai multipli», Sperling & Kupfer, Milano, 1976 Giampiero Bosoni,« Il Modo Italiano. Design e avanguardia nel XX secolo», Skira, Milano, 2007Questa è l’ultima di quattro parti di un articolo di Luca Zaffarano orginariamente apparso in italiano sulla rivista «Ithaca.Viaggio nella Scienza», n. III, Febbraio 2014, http://ithaca.unisalento.it/nr-03_04_14/Ithaca_III_2014.pdf (titolo: Arte e Scienza. Dal Futurismo all’arte Moltiplicata). La rivista nasce da un’iniziativa del Dipartimento di Matematica e Fisica dell’Università del Salento e si apre all’intreccio tra discipline diverse. Le prime due parti dell’articolo sono state pubblicate su Arshake il 22 aprile, il 30 aprile e l’8 maggio 2014. L’articolo si muove in Arshake tra presente e passato in quanto ripercorre le radici storiche di un movimento ora molto attuale e protagonista della grande mostra al Guggenheim di New York ,«Italian Futurism, 1909–1944: Reconstructing the Universe», Guggenheim Museum, New York, 21.02.2014– 09.0 1.2014.
immagini (1 cover, 4) Luigi Veronesi, Visualizzazione cromatica della «Sarabande» per pianoforte di Erik Satie (1982-83). misure 1-14, Archivio Luigi Veronesi, Milano (2) Mario Ballocco, Struttura stellare blu con cerchio indotto (1969). Collezione privata. (3) Gianni Colombo, Progetto di Spazio elastico, Graz (1967). Courtesy Archivio Gianni Colombo, Milano.