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«Legatemi pure se lo volete/ma non c’è nulla che sia più inutile di un organo/ Quando avrete fatto (all’uomo) un corpo senza organi /l’avrete liberato di tutti i suoi automatismi / e restituito alla sua vera libertà(…)». Sono le parole pronunciate da Antonin Artaud il 28 novembre del 1947 nella trasmissione radiofonica Per Farla Finita Col Giudizio Di Dio.
Acquisito e rielaborato filosoficamente, negli anni Settanta e Ottanta da Deleuze e Guattari, il concetto di Corpo senz’Organi è transitato ne decenni successivi nel mondo delle arti visive, in particolare nel lavoro dei cosiddetti body artists di seconda generazione. Si pensi alla celebre triade formata da Orlan, Stelarc, e Marcel Lì Antunez Roca che nelle loro performance hanno messo in scena l’ibrido, il corpo post-human che fa a meno dei suoi organi, sostituendoli con protesi tecnologiche di natura inorganica; un corpo mutante che si ricollega alle pratiche di realtà virtuale e simulata, alle sperimentazioni scientifiche della robotica, della biogenetica etc. Questo spostamento dal piano dell’evoluzione naturale a quello dell’evoluzione culturale ha richiesto nuovi dispositivi transdisciplinari di visualizzazione delle tematiche corporee. Dispositivi rintracciabili ancora oggi nel lavoro di molti artisti la cui poetica incentrata sul post-umano, dunque sul potenziamento dell’umano, mette in scena, fondamentalmente, l’atavica ossessione del superamento della morte.
Sono trascorsi esattamente settant’anni dall’affermazione artaudiana sul Corpo senz’Organi, una distanza che ci consente di appurare la longevità e l’attualità di un concetto che assurge ancora oggi a metafora di un corpo/linguaggio individuale e sociale frammentato, scisso, slegato da qualsiasi regola sintattica ma non completamente liberato da tale ossessione.
Il video This Is Offal (2016) di Mary Reid Kelley è un esempio di come tali questioni siano ancora fortemente presenti nell’immaginario artistico contemporaneo e, nello stesso tempo, ne testimonia un distacco emotivo che nasce dalla consapevolezza dell’inconciliabilità tra il concetto stesso di Corpo senz’Organi e del suo esistere come entità “in transito” e la natura definita e definitiva della morte stessa. L’artista americana infatti restituisce una visione grottesca e non priva di humor noir del pensiero artaudiano, attraverso una citazione “letterale” del corpo e del suo esistere separato dai suoi organi, in una situazione di post-morte. Il titolo – tradotto “le frattaglie – gioca con le parole offal/awful, entrambe riconducibili al tema attorno a cui si sviluppa l’intera narrazione filmica, ovvero il suicidio e la terribile irrevocabilità di tale atto. Alle “frattaglie”, – nello specific al fegato, cuore, stomaco, intestino, cervello, a cui si aggiungono, nella seconda parte del video, anche una mano e un piede – l’artista affida un singolare dialogo ambientato in un obitorio, dove il cadavere di una giovane donna morta suicida viene preparato per l’autopsia. In questo surreale e grottesco Teatro delle Crudeltà i vari organi che assumono le sembianze e le movenze di un volto umano, quello della stessa Mary Reid nella fattispecie, si accusano a vicenda di essere stata la causa scatenante del suicidio della donna, divenendo gli interpreti di un dialogo tragicomico e assurdo.
Sul banco degli imputati, ciascuno di essi accusa l’altro e difende con enfasi le sue ragioni, banalizzando e ridicolizzando l’atto suicida che, come fa notare Albert Camus, i cui scritti sono spesso citati da Mary Reid a proposito di This Is Offal, rimane oggi “l’unico problema filosofico veramente serio”. E tuttavia, nel suo saggio Il Mito di Sisifo, come sottolinea l’artista stessa, il pensiero di Camus si perde nelle logiche semplificanti e tendenti a liquidare il suicidio come tentativo di fuga dalla realtà, escludendo, al contrario, che esso, come per la protagonista del video, possa essere un atto libero ma non necessariamente liberatorio.
L’estrema vanitas è la matrice della sofferenza che sembra aver condotto la donna a mettere fine alla propria esistenza. Lo si evince dai discorsi pronunciati dal suo alter ego in versione fantasmatica che, ad un certo punto della narrazione, si stacca, dal corpo, prendendo possesso della scena: «Oh yes, my arms and legs will be remembered Now that I’ve joined the club of the dismembered …) For me, there’ll be no sunset ride, My heaven is formaldehyde!».
Orgoglioso di divenire oggetto di studio e di osservazione scientifica e, dunque, di esibire le sue “frattaglie”, il corpo diviene un contenitore aperto al principio dell’autodeterminazione e all’infinito campo delle possibilità (come testimonia la cicatrice/zip disegnata al centro del busto della donna e da lei stessa manipolata per consentire la fuoriuscita di vari oggetti “animati”) . Perché il “corpo desiderante”, una delle definizioni che Deleuze e Guattari attribuirono al Corpo senz’Organi, lungi dal ricercare la soddisfazione di un desiderio – fosse anche un desiderio di morte che si esprime attraverso il suicidio, – vive del perenne perpetuarsi dello stesso. E’ un corpo eversivo, anarchico, dis-organico e dis-organizzato nella misura in cui i suoi organi, privati della loro funzionalità sistemica, divengono individui prevaricanti, diffamatori, giudicanti, traditori. La stessa disputa poetica in rima che li vede protagonisti, fa largo uso dei doppi sensi (in riferimento ai lavori dei Kelley l’artista e critico Dennis Kardon, in un recente articolo pubblicato su Art in America, parla di “pun-ography”, dove l’inglese“pun” sta per “gioco di parole”, appunto), inscenando un continuo tradimento del linguaggio. Liberarsi dalle proprie frattaglie significa appunto, liberarsi da questo giudizio o, meglio,“farla finita col giudizio di Dio”, come recita il titolo della sopracitata trasmissione radiofonica, alludendo a una possibile emancipazione dalle pastoie genetiche e culturali imposte a ciascun individuo sin dalla nascita.
E’ curioso che per rappresentare il concetto di Corpo senz’Organi, Kelley utilizzi un linguaggio filmico volutamente obsoleto, frutto in realtà di una sofisticatissima operazione di editing digitale – messa in atto dal marito Patrick, co-firmatario, con lei, di gran parte dei suoi lavori – e di animazione artigianale per certi versi affini ai “trucchi” del cinema d’antan. L’uso del bianco e nero fortemente contrastato, i volti dei personaggi pesantemente truccati per ricreare espressioni sovraccariche, l’uso di fondali dipinti di derivazione teatrale: tutto è teso alla riesumazione delle atmosfere sospese tra allucinazione e realtà degne del miglior Gabinetto del Dottor Caligari, capolavoro del cinema espressionista tedesco. Ma, a ben guardare, anche questa inadeguatezza temporale delle immagini ricostruita tramite l’artificio tecnico, lontana dall’estetica fredda del corpo e dei suoi innesti tecnologici della cybercultura anni Novanta, è funzionale alla resa parossistica di uno scenario in cui ancora una volta il corpo è al centro di una battaglia che si svolge tra due polarità: da una parte la sua resistenza al naturale processo di obsolescenza e dunque la sua obbedienza alle leggi dell’umana vanitas; dall’altra la fluidità che si lega alla sua stessa natura desiderante e libera da qualsivoglia categoria di giudizio. La protagonista di This Is Offal, mentre da un lato, in quanto corpo desiderante, mette a tacere i suoi organi, placandone le ire accusatorie, dall’altra esprime, nella sensualità delle fattezze e dei gesti, una voluptas che la rende, anche da morta, desiderabile e dunque vittima del suo stesso limite corporeo. E da questa cacofonia di immagini, dialoghi, tecniche e visioni, l’assurdo affiora come dimensione naturale di un’esistenza che nonostante il progredire delle teorie e delle pratiche filosofico-tecnico-scientifche legate al corpo, rimane, heiddegerianamente parlando, un “essere per la morte”; emerge l’ironia come efficace strumento di superamento di tale assurdo irrisolto.
This Is Offal è parte della mostra personale Mary Reid Kelley e Patrick Kelley, «We are Ghost», Tate Liverpool, fino a marzo, 2018
immagini (all): Mary Reid Kelley, This Is Offal, 2016, Single channel HD video with sound, made with Patrick Kelley, 12’51”. Courtesy of the artist and Pilar Corrias, London. [film still]