Assisto allo spettacolo The Making of Berlin della Compagnia Berlin al Mattatoio di Roma nell’ambito del Romaeuropa Festival. Le prime immagini che ci vengono proposte, apparentemente di documentazione, sono proiettate su un telo posto in prossimità dello scalino del palco, una totale disattesa delle aspettative per chi, come me, si aspettava di guardare “del teatro”. Dopo circa venticinque minuti mi sono quasi arreso all’idea di star effettivamente assistendo ad un making of di un’opera altra.
Questa prima disattesa delle aspettative non è stata affatto l’unica ed alla fine dello spettacolo ero confuso, non del tutto capace di processare in tempo reale a quanto stavo assistendo. Il meccanismo architettato da Yves Degryse è costruito con cura e ingegno in tutte le sue parti ma è solo nel suo insieme che è possibile riflettere sulla complessità del progetto.
Passati i venticinque minuti, il telo cade, mostrandone un altro, semi trasparente, artificio per mezzo di cui la bidimensionalità del formato video viene decostruita, sostituendosi a una tridimensionalità in cui viene fatto dialogare il mezzo filmico col mezzo teatrale. In poche parole il palco si mostra, ed entrano in campo gli attori, tra cui il regista Yves Degryse, di formazione attore.
La proiezione del making of continua in trasparenza mentre un grande schermo a led in fondo al palco mostra le stesse immagini, per la prima volta però sembra che la finzione si sia intromessa nell’immersione video. Un’attrice suona un corno, dichiarando che parte della colonna sonora è eseguita live, al contempo il regista-attore interviene sul video in tempo reale per mezzo di una camera e di un green screen, mettendo in evidenza delle foto rilevanti all’interno della drammaturgia filmica.
Il dialogo tra il cinema, in particolare quello documentaristico, e il teatro sembra evidenziare una conflittualità tra ciò che è vero (la musica e i documenti mostrati) e la finzione. Questa considerazione è però tradita dalle apparenti intenzioni dell’opera. Perché un making of, a tratti quasi televisivo, è accompagnato da una così imponente struttura multimediale e multidisciplinare? La complessità concettuale è indirizzata dalla drammaturgia del documentario.
La narrazione gira intorno a Friedrich Mohr, un membro dell’orchestra di Berlino durante la seconda guerra mondiale. L’uomo, anziano, ha un sogno che non ha mai potuto vedere compiersi, un progetto che si trascina da quando ha memoria: l’intera orchestra di Berlino che esegue la marcia funebre di Sigfrido, parte dalla “Götterdämmerung” di Wagner dislocata in 6 bunker sparsi per Berlino alla fine della guerra. Seguiamo la crew intervistare l’uomo e al contempo ottenere i soldi e i permessi per compiere l’impresa.
Fino a questo punto il documentario appare quasi melenso e le contaminazioni teatrali non necessarie. Il punto di svolta avviene nel momento in cui il regista-attore all’interno della narrazione scopre, come in un intrigato giallo investigativo, che Friedrich ha mentito. Il progetto è ormai in stato avanzato e l’intera crew decide di mentire a tutti e di far eseguire la marcia funebre all’orchestra e di mandarla in radio in diretta nazionale. A questo punto è possibile pensare che si tratti di un’opera il cui tema centrale, quello della finzione sia venuto a galla naturalmente durante le riprese del documentario, un’occasione per creare qualcosa in qualche modo di autosufficiente alla realizzazione dell’impresa.
Col passare dei minuti aumenta il carattere misterioso della vicenda mentre tutti sul palco continuano, come se nulla fosse. Cade nuovamente qualcosa: si tratta del telo trasparente. In scena gli attori si stanno muovendo e spostando tutto. Nel giro di un minuto il grande Led si trasforma in sei schermi, con un ulteriore schermo sul palco. Il direttore d’orchestra fa partire la marcia funebre. Il regista-attore ascolta, l’anziano menzognere fa lo stesso con profonda commozione. Un sogno che si è avverato? Estremamente affascinato ma confuso batto le mani. L’opera si è conclusa. Dai titoli di coda leggo che anche Friedrich Mohr è un attore. È tutto finto. Mi sembra assurdo non aver realizzato.
Daniele Bucceri, 22 settembre 2024
immagini: Berlin, «The Making of Berlin», Romaeuropa Festival 2024
Compagnia teatrale Berlin (direttore artistico Yves Degryse)
The Making of Berlin, Romaeuropa Festival 2024, Mattatoio, 22-23-09.2024
L’articolo di Daniele Bucceri è parte del progetto editoriale Intraspaces, sesta edizione di Backstage /Onstage, nato da una partnership tra Accademia di Belle Arti di Roma, Romaeuropa Festival, e Arshake per portare, dal 2018, un gruppo di studenti dell’Accademia di Belle Arti di Roma dietro le quinte del Romaeuropa Festival. Ogni anno ne è nato un progetto editoriale diverso per confluire nella pagina dedicata che cresce come unico grande archivio. L’edizione 2024, Intraspaces, si avventura negli spazi intrastiziali, ovvero tutti quei luoghi di connessione che mettono in relazione tecnologie, artisti, spazio, spettatori, a volte estendendosi anche al territorio, dove le diverse istituzioni che questo evento riesce a coinvolgere sono collocate. Hanno partecipato a questa edizione: Giovanni Bernocco, Daniele Bucceri, Stella Landi, Lidia De Nuzzo, Francesca Pascarelli, Anton Tkalenko. Visita qui la homepage del progetto e l’archivio delle edizioni passate.