Da qualche anno è in corso una riscoperta della figura artistica di Bruno Munari. Fino a poco tempo fa l’artista milanese era noto fondamentalmente come designer o come autore di libri e di laboratori creativi. Pochi lo consideravano nella sua complessità di artista. Tuttavia a partire dal 2012 con la mostra alla Estorick Collection di Londra, dove è stato preso in considerazione il suo passato futurista, lo sguardo sul suo lavoro si è fatto più attento. Il Centre Pompidou di Parigi ha acquisito in collezione “forchette parlanti”, “sculture da viaggio”, “xeroritratti” e “macchine inutili”. Recentemente a New York la sua opera è stata oggetto di una antologica presso la galleria Andrew Kreps. Una corposa pubblicazione in lingua inglese, a cura del professore Pierpaolo Antonello che insegna a Cambridge (UK), ha raccolto saggi di accademici che lavorano nelle più prestigiose università del mondo. Una antologia che ci rivela quanto interesse il suo lavoro riscuota ancora oggi nel mondo della ricerca, in particolare quello anglosassone. Ora è la volta del Giappone, sua seconda casa, dato che dalla cultura classica giapponese egli ha attinto a piene mani. Quattro musei giapponesi gli hanno dedicato una retrospettiva con oltre 300 opere. L’ultimo appuntamento si è aperto a novembre al museo Setagaya di Tokyo. La mostra itinerante, finanziata dallo Yomiuri Shimbun, il più venduto giornale giapponese, ha richiesto quattro anni di lavoro e molti viaggi. Quattro anni ben spesi, dato che il risultato ottenuto è la migliore presentazione, la più fluida, la più accattivante, la meno dispersiva, che sia stata realizzata negli ultimi anni.
Il legame di Munari con il Giappone è di vecchia data, risale ai primi anni cinquanta quando venne invitato a mostrare le sue “proiezioni dirette”, una sorta di video-installazioni ante-litteram. Ma il suo primo appuntamento rilevante è del 1965 con una personale ai magazzini Isetan di Tokyo, dove Munari espone per la prima volta le sue “xerografie originali”, frutto di una ricerca estetica sull’uso creativo della macchina fotocopiatrice. Una sperimentazione che verrà successivamente formalizzata alla Biennale di Venezia del 1970 tramite un volume edito dalla Rank Xerox. A Tokyo, in occasione della mostra, Munari progetta un bellissimo “libro illeggibile bianco e nero” e una “fontana a cinque gocce”, un’opera, quest’ultima, in grado di rappresentare una summa del suo pensiero, tanto da far scrivere ai giornali dell’epoca che Munari è in pieno spirito zen. Nessuno, per quanto ci è dato di conoscere, ha mai realizzato un environment visivo-sonoro altrettanto poetico con la caduta casuale di solo cinque gocce in uno specchio d’acqua illuminato e arricchito da microfoni subacquei. Non si capisce perché a personaggi come Munari, o Marinetti (il nostro “Warhol before Warhol”, come è stato scritto in tempi recenti sul New York Times), o altri importanti autori, non siano dedicati in Italia dei musei permanenti. E’ una delle tante sciocchezze che rendono indecifrabile il nostro paese. Munari ritornerà a Tokyo con un’altra mostra importante nel 1985 al Castello dei Bambini di Shibuya, dove per l’occasione lascerà parecchie opere in alcune collezioni pubbliche. È proprio da quel lascito, e con la supervisione di Kiyoshi Iwasaki, curatore della mostra del 1985, che lo staff del Setagaya coordinato da Noda Naotoshi ha sviluppato questo progetto che ci ha piacevolmente sorpresi.
Setagaya è un distretto residenziale particolarmente tranquillo. Passeggiare per le sue strade, apparentemente periferiche, è molto piacevole. Il museo è immerso in un ampio parco, ha una struttura in cemento in grado di offrire volumi aperti, facilmente modulabili. Grazie a queste caratteristiche la mostra di Munari consente al visitatore di passare in modo naturale da uno sguardo d’insieme ai dettagli di ogni singolo lavoro (ogni sala ha un suo argomento descritto attraverso un cluster di opere). Le sale aperte e tra loro comunicanti non obbligano a percorsi strutturati e la curiosità dello spettatore è lasciata libera di muoversi. Le suggestioni tematiche della mostra vengono, volutamente, descritte attraverso una molteplicità di opere e di forme. E’ un modo di rappresentare l’opera di Munari senza imposizioni particolari, indirizzato a stimolare la voglia di curiosare in piena libertà. Spiccano, per il loro valore storico, una sequenza di “proiezioni polarizzate”, databili anni cinquanta, che utilizzano il filtro Polaroid per creare immagini variabili all’infinito. Alla digitalizzazione di questo lavoro è dedicata una sala, che è anche l’unico ambiente “chiuso” dentro una mostra a struttura “aperta” e dove i concetti proposti vengono sviluppati attraverso gruppi di opere che solo insieme possono coerentemente rappresentare un pensiero poetico per sua natura multiforme, tipico di chi osserva le cose da punti di vista differenti. Forse questo approccio metodologico, espresso tramite la creazione di una varietà di forme, è uno dei messaggi più rilevanti lasciato in eredità dall’artista.
Bruno Munari. The Man who Made the Useless Machine, Setagaya Art Museum, Kawasaki, 17.11.2018 – 27.01.2019
immagini: «Bruno Munari. The Man who Made the Useless Machine», Setagaya Art Museum, Tokyo, exhibition view, photo: Pierangelo Parimbelli