La ricerca di Francesca Cornacchini: classe 1991, spazia in diversi ambiti attraverso numerose tecniche artistiche, senza mai abbandonare un linguaggio espressivo deflagrante, di una violenza elegante, con sfumature a volte cupe, spesso stranianti. Ascoltare Francesca Cornacchini significa mirare alla nuova generazione di artisti, prepararsi ad un bombardamento di tematiche tanto attuali quanto complesse, significa guardare ad un’espressione assoluta e contemporanea, in cui i fatti e le sfumature della nostra vita si mescolano alla simbologia contemporanea e agli oggetti e ai segni del presente.
Fabio Giagnacovo: Quest’anno, alla mostra Fou Rire, curata da Angelica Gatto e Simone Zacchini alla Galleria 1/9 di Roma, erano presenti 2 tuoi lavori: Devil May Care, una tela luciferina composta da toppe di tuta rossa e bruciature di sigarette, e Crush Girl, the smell of smoke, testimonianza fotografica e fattuale di una performance fiammeggiante nella stessa galleria in cui i piani temporali e semantici si sovrappongono, ma a pensare anche ai tuoi altri lavori troviamo istallazioni ambientali, assemblage, grafiche digitali, astrazioni contemporanee, parole e frasi sui muri con lo spray, oggetti prelevati dalla realtà e trasformati in segni, elementi estremamente stranianti. Quanto è importante la sperimentazione materiale e immateriale? E questo continuo sperimentare ha forse a che fare con le caratteristiche intrinseche del nostro presente?
Francesca Cornacchini: Ciao!
Mi piacerebbe citare un testo che Fabrizio del Signore, gallerista, collezionista, ma prima di tutto amico di grande cultura, ha scritto parlando del mio lavoro in occasione della Biennale di Gubbio, curata da Spazio Taverna:
«Gli scienziati ci insegnano che caos e casualità sono concetti diversi e che il risultato di un caos deterministico non è mai casuale. Ma gli scienziati forse non considerano l’arte, strumento potentissimo a disposizione di un atteggiamento culturale che Edgar Morin definirebbe pensiero complesso.»
Il prodotto del mio lavoro non risulta, dunque, una sperimentazione blanda e casuale, quanto piuttosto una ricerca comunicativa complessa, mirata ad una forma linguistica simbolica e diretta che è quella dell’arte contemporanea.
Non mi sento particolarmente rappresentata dall’esperimento, quanto invece dalla ricerca che «a porte chiuse» approda alla realizzazione dell’opera finita, qualsiasi forma essa abbia.
Dunque non credo affatto sia una prerogativa di questo presente, quanto piuttosto il prodotto di un fare critico, complesso e cosciente.
Tutto è uno sforzo termodinamico fino all’esaurimento!
Tecnopessimismo ed estetica underground: temi a me molto cari che ricorrono spesso nei tuoi lavori, temi che seppur ritroviamo in diversi modi e con diverse forme, acquistano un carattere assoluto generazionale quando affrontati dalla tua generazione. Cosa ne pensi? Secondo te come si relazionano queste due tematiche? E cosa è rimasto, oggi, nello spazio analogicodigitale in cui viviamo tutti i giorni, uno spazio che ha consumato il senso controculturale stesso, dell’underground?
Nelle domande che più spesso mi vengono poste avverto frequentemente questo allarmismo verso la sorte delle controculture!
Ma non c’è nulla da temere, hanno sempre resistito!
Infatti la controcultura, l’undergroud, è il terreno fertile del pensiero pionieristico, romantico e politico.
Ogni grande rivoluzione parte da una controcultura.
L’underground è eroico!
Il Tecnopessimismo, non è la sfiducia a priori nei confronti della tecnologia, quanto piuttosto una critica all’utilizzo capitalistico del progresso tecnologico.
Il progresso non è tale se non mira al benessere collettivo.
Noi siamo per la tecnologia ciò che l’ape è per il fiore!
Tecnopessimiso è un concetto fortemente politico che affonda le sue radici nell’immediatezza dell’estetica.
Pensa al piacere che provi nel vedere il logo dell’Eni, il cane a sei zampe, prendere fuoco e sciogliersi, un peluche di Pikachu venuto terribilmente male oppure una vecchia sede Google ormai abbandonata in un arido deserto californiano.
Riprendiamo ad esempio «Devil May Care». L’utilizzo del logo è centrale nella realizzazione del lavoro.
Il simbolo viene rimodulato in primo luogo tramite lo smembramento delle tute, ovvero la composizione, diciamo l’estetica del lavoro, in secondo luogo in termini socio politici.
Questo perchè i loghi come Adidas sono fortemente legati ad una certa generazione, ad un certo ambiente subculturale, legati ai rave, ed in certi casi correlati anche all’ illegalità, penso ai gopnik, ragazzi e ragazze della piccola criminalità Russa ed il loro iconico Slav squat.
Il decadere del logo, il simbolo, determina un certa soddisfazione latente questo perché la distruzione dell’icona sancisce, in un certo senso, l’immaginaria vittoria della battaglia, regala una certa sensazione di speranza, sensazione che generazionalmente siamo portati a non considerare.
Ma, per l’appunto, non è così!
E’ nella resistenza controculturale che vedo i semi del nuovo pensiero critico e questo è transgenerazionale!
Spesso, nei tuoi lavori, ricorrono elementi immediati, fortemente legati alla nostra contemporaneità (storica) e al nostro presente (percettivo) – partendo anche, a volte, da una simbologia fortemente storicizzata e popolare. Sto pensando a Win the Palio and Kiss Me, Vestale della Dea, Nuda Proprietà, Volpe di Teumesso, ad esempio. Mi viene in mente un articolo su Not, di Remo Grillo, che ho letto un po’ di tempo fa, sul celebre meme MOTH/LAMP e le sue implicazioni filosofiche e profonde, pur apparendo a noi nella sua assoluta semplicità. Sempre più spesso le opere d’arte e i meme sui social network si confondono, appaiono sostanzialmente simili – Valentina Tanni docet – allora cosa distingue un’opera d’arte da tutto il resto, secondo te? Per esempio, la tua scritta «NAKED» sulla vetrina illuminata di rosso apre ad un universo di rimandi e di sensazioni, ma nella sua riproduzione fotografica in Internet cosa diventa un’opera così legata al suo spazio analogico?
E’ un filosofeggiare del tutto antropocentrico quello dell’articolo in questione.
Il meme, come le riflessioni di Grillo, tralasciano ed eludono il dramma evoluzionistico del volo della falena, senza mai intendere la loro come una vera e propria cultura che sfugge alla nostra interpretazione.
Come i marinai con la stella Polare, così le falene con la Luna individuano la loro rotta, per volere o volontà poco importa, perpendicolari alla fonte di luce più forte.
Una volta questa fonte di luce era unicamente quella del nostro satellite, la Luna, ma vai a spiegare il Tecnopessimismo alla falena, valle a spiegare l’illuminazione artificiale e la «lentezza» evoluzionistica delle specie!
Insomma considerando l’articolo di Grillo come esistenzial-darwiniano, e volendo comunque fare questo gioco, tutto dipende dall’intenzione: il volo di una falena, come un meme, come un’opera d’arte.
Cosa diventa la foto ricordo nella tua galleria immagini di quella volta che sei stato al Louvre e hai fotografato la Gioconda?
Solo un’altra immagine!
Tutte sono solo immagini, dipende dall’intenzione iniziale e dall’interpretazione che abbiamo di esse, a quale campo semiotico le abbiniamo.
Quando si indica non guardiamo più il dito ma l’oggetto o la situazione da attenzionare.
Prendiamo ad esempio «Volpe di Teumesso», un lavoro che ho prodotto tra il 2018 e il 2019.
Una fototrappola ,che scattava foto grazie ad un sensore di movimento e prossimità, inquadrava un sex toy ,composto da plug e coda di volpe, posizionato a terra.
Al muro svettava la scritta a spray «Hunting Season Open».
I fruitori erano attratti dall’oggetto ambiguo, il sex toy, così venivano immortalati dalla fototrappola che li catturava.
Chi era la preda? L’opera parla dell’ ossessione, la tensione che si può creare in una relazione ,che sia amorosa o lavorativa.
Arte e meme sono in relazione!
Dal 2018 fai parte del gruppo di artisti di Spazio In Situ. Negli ultimi anni gli artist-run space sono proliferati, e non è difficile capirne il motivo, sottolineando ancora di più, anche, semmai ce ne fosse il bisogno, il ruolo contemporaneo dell’artista. Quanto sono importanti questi spazi per un artista e, in generale, per il quartiere e la città che li ospita? E quanto è importante «fare rete» nell’ambito artistico, un ambito pieno di angoli cechi e passaggi chiodati?
Gli artist-run space sono luoghi che rendono meno elitario il fare artistico.
Abbattono i costi, per esempio dell’affitto, i macchinari sono spesso condivisi, lo scambio di idee tra i diversi membri del gruppo permette una consistente divulgazione culturale, e soprattutto ci si aiuta!
Ironicamente potremmo chiamarli luoghi anarco-socialisti autogestiti, che ,a volte, hanno un ruolo culturale avanguardistico maggiore di quelli istituzionali, comunemente abbinati al lavoro della compravendita!
Viviamo un periodo terribilmente incerto in Italia, economicamente e culturalmente parlando.
Chi si occupa di cultura, come noi artisti, deve riunirsi e creare reticoli di divulgazione di idee, di estetiche, prendere posizioni politiche, influenzare l’andamento del mercato, dencentrarlo da «chi ha» a «chi sà».
Non a caso due anni fà ho fondato D3cam3ron3, residenza per artisti ed intellettuali, che mira all’otium come forma di riflessione e studio svincolato dall’iperproduzione, e ovviamente auspica alla formazione e all’ampliamento del reticolo di relazioni che si innescano nel sistema arte e cultura.
Tu ha frequentato la RUFA (Rome University of Fine Art) – laureandoti al triennio in Scenografia e al biennio in Scultura. Quanto è stata importante per la tua formazione? Secondo te c’è qualcosa che potrebbe essere migliorato nell’ambito della formazione artistica?
Mi sono iscritta alla RUFA nel 2010, quindi non posso dirti come sia ad oggi!
Trovo che ogni forma di studio, però, debba essere affrontata con spirito critico, e diluito nei propri interessi, ricerche e letture. Insomma con la propria formazione!
In accademia ho incontrato i miei compagni di Spazio In Situ agli albori della sua nascita.
Devo dire che gran parte della mia esperienza si è concretizzata grazie all’artist run space, dagli scambi con i miei colleghi, alla relazione con gli istituti di cultura nel momento in cui ospitavamo delle mostre.
immagini: (cover 1) Francesca Cornacchini, Devil May Care (2) Francesca Cornacchini, Silver Pessimism (3) Francesca Cornacchini, Volpe di Teumesso (4) Francesca Cornacchini, Volpe di Teumesso (dettaglio) (5) Francesca Cornacchini, And If I Could No End In Sight, credits Chiara Cor (6) Francesca Cornacchini (illustrazione di Nikla Cetra)
Survive the Art Cube è una serie di conversazioni con artisti di diverse generazioni curata da Fabio Giagnacovo. Il titolo riprende il più famoso libro di Brian O’Doherty a volerne ricalcare il piglio critico. Ha il fine di comprendere meglio come questi artisti percepiscono lo spazio analogicodigitale in cui siamo immersi e la nostra contemporaneità, che senso e che importanza ha lo spazio artistico oggi e che senso ha nel nostro presente fare un percorso artistico. I tempi cupi impongono una riflessione sulla realtà e solo gli artisti, forse, possono aprirci la mente:
Interviste precedenti:
Intervista ad Enrico Pulsoni, Arshake, 09.11.2023
Intervista a Marinella Bettineschi, Arshake, 15.10.2023