Sabato 12 ottobre (ore 21.00) nell’ambito del Digitalive. Romaeuropa Festival a cura di Federica Patti e nella cornice degli spazi del Mattatoio di Roma va in scena Il Teatropostaggio da un milione di dollari di Giacomo Lilliù, performance che si svolge su Telegram per tradurre in drammaturgia lo shitposting, vale a dire il deragliamento di una discussione virtuale con contenuti inappropriati. Ne parla Lidia De Nuzzo con Giacomo Lilliù.
Lidia De Nuzzo: Il teatro da sempre è stato specchio delle fondamenta e delle contaminazioni della società che lo scrive, in che modo la cultura del meme e dello shitposting riflettono, nello spazio virtuale del social e nello spazio reale dell’atto scenico teatrale, i meccanismi di relazione allo spazio e all’altro/a che caratterizzano la nostra contemporaneità. Da cosa nasce la scelta di ridare vita alla scrittura di Carlo Goldoni attualizzando Le smanie per la Villeggiatura? Come si colloca all’interno del vostro percorso di ricerca artistica?
Giacomo Lilliù: Interessante per me che tu parli di teatro come qualcosa di scritto. «Il teatro è da sempre contaminazione della società che lo scrive»: immagino tu intenda dire che la società scrive il teatro e questo della scrittura come strumento teatrale è un punto abbastanza centrale nella nostra performance nella misura in cui noi prendiamo come punto di partenza, punto di accesso, se vogliamo anche come pretesto per la nostra operazione, Goldoni.
Quello che Goldoni fa con la sua riforma storica è proporre, per il paradigma italiano, un modello di scrittura del testo per superare l’estro della maschera, del performer e andare programmaticamente dentro ai caratteri con delle battute architettate proprio per inseguire il verosimile. Nel nostro lavoro abbiamo ben chiara questa operazione che fa Goldoni, ovvero preferire un’opera fluida, con intento più performativo che non rappresentativo, anche in senso di intrattenimento puro, e in qualche modo gli muoviamo contro.
Non voglio essere troppo ardito nel paragonare l’adozione del meme ad un ritorno alla commedia dell’arte. Tuttavia, è vero che il meme è una forma di comunicazione fulminea, funziona nel momento in cui crea un corto circuito di riferimenti che si concentrano e si rimpallano a vicenda, una sorta di lazzo semiotico se vogliamo. È proprio questa accensione di più neuroni contemporaneamente che rende il meme una macchina che riesce a propagarsi, forse anche semplicemente per il piacere di sentire queste aree diverse collassare dentro una singola immaginetta con delle scritte buffe.
La complessità non equivale necessariamente a lentezza. Noi ci poniamo nei confronti dello strumento dello shitposting e del meme come di fronte ad uno strumento che ci parla di come sia possibile oggi esistere immersi nella complessità e cercare di comprenderla semplicemente standoci dentro, respirandola e navigandoci, un po’ come la parabola di David Foster Wallace, dove il pesce vecchio incontra due pesci giovani. Il pesce vecchio dice: «Buongiorno ragazzi, com’è l’acqua oggi?» E uno dei pesci giovani guarda l’altro e dice: «Ma che cos’è l’acqua?» Quasi come se i meme fossero una manifestazione del fatto che noi respiriamo e ci nutriamo di complessità ormai e che quindi forse anche il cercare di spacchettare la complessità in tutti gli strati di significato è una semplificazione essa stessa di quella complessità. Lo shitposting anche di conseguenza lo è, pensato proprio come pratica di deragliamento del discorso. Questo tessuto in cui siamo immersi, viene da dire, è forse una forma di reazione alla presenza pervasiva della narrazione in tutto quello che ci viene propinato, perché ormai narrazione e comunicazione hanno fatto il paio su tutti gli ambiti mediaticamente diffusi, ecco.
Questa intervista è parte del progetto editoriale Backstage/Onstage che quest’anno ruota attorno agli Intraspaces, ovvero tutti quegli spazi intrastiziali che mettono in relazione tecnologie, artisti, spazio, spettatori. A tal proposito, da cosa nasce questo processo di fusione fra diversi media e diverse modalità espressive e in che campo percettivo si colloca l’esperienza dello spettacolo?
Il processo di fusione nasce dal fatto che io non so fare meme, ma li ho sempre trovati molto stimolanti. C’è chi ricorre ai meme come strumento di aggiornamento sul mondo. Non so se posso dire che io faccia lo stesso. Sicuramente mi capita a volte di apprendere delle notizie proprio a partire dai meme. Al al di là delle notizie c’è una forma molto interessante, anche se poi ‘forma’ è una parola impropria, una sorta di tendenza che hanno alcuni creatori di meme che è il cosiddetto meme essay. Profili come @avodacoibuprofen, @young_agamben, @lacanyewest (quest’ultimo non più attivo) sono dei progetti che utilizzano il linguaggio della cultura internet per portare degli affondi di riflessione che sono spesso molto illuminanti per me. Torna la complessità di cui ti parlavo prima, complessità nel senso che possiamo vivere in un mondo dove, tanto nei feed social come nella vita analogica, con il superficiale convive l’approfondimento per poi magari tornare al superficiale.
In questo tempo è prezioso imparare questo continuo altalenare. Significa capire la necessità di allenarci ad espanderci costantemente tanto nella dimensione orizzontale quanto in quella verticale.
Questo è ciò che ci chiede il mondo circostante. Ovviamente dobbiamo saperlo fare, sia guadagnandoci gli spazi di approfondimento verticali che quelli di approfondimento orizzontali. Da questi progetti mi è venuto in mente di portare questo specifico approccio di organizzazione dei contenuti al servizio del teatro e di una innovazione drammaturgica, avvicinando anche persone che magari dal teatro si sentono se non lontanissime, comunque non a casa. Questa è una caratteristica fondamentale dei progetti che realizzo sotto il nome Collettivo ØNAR: coinvolgere collaboratori e collaboratrici che per percorso e formazione pongono una distanza nei confronti del teatro. È molto bello quando questa distanza viene colmata e i risultati sono sempre sorprendenti.
Per quello che riguarda la tua domanda sulla collocazione dello spazio percettivo dell’esperienza, è molto difficile dare una risposta univoca. Noi diamo sempre una doppia modalità per seguire spettacolo: venire in presenza, o seguire solo da remoto, in diretta digitale su Telegram. Questo crea una performance che in realtà non ha una sua collocazione percettiva stabile. Per me in primis è difficile fare l’esperienza da spettatore in questo lavoro.
Le piattaforme social, nello specifico di questo spettacolo Telegram, ci costringono ad una performatività denaturata, che consente la scrittura continua di identità e contenuti. In che modo questa performatività può essere traslata e inglobata nella performatività dell’atto artistico teatrale? Quali sono nella vostra ricerca artistica gli elementi e gli spazi di fusione e di ibridazione all’interno del teatro contemporaneo?
Innanzitutto non so bene se possiamo definire Telegram un social, perché Telegram è più che altro una piattaforma di messaggistica. Succede spesso che le pagine di meme aprono dei canali su Telegram, però ecco la definizione di Telegram come social secondo me può risultare impropria, perché appunto Telegram si colloca in questo spazio a metà dove nessuno ti chiede necessariamente di curare un profilo. La cosa importante è che tu produca contenuto. Anche qui con una natura performativa che consenta non la scrittura, ma la ri-scrittura e la destabilizzazione continua dell’identità di un profilo proprio grazie ad un flusso più libero dei contenuti.
È anche vero che, purtroppo o per fortuna, grazie a questa modalità ormai endemica degli algoritmi che governano le piattaforme social, chi riesce a presentare l’identità più forte è quello che ha più visibilità e spazi sulle stesse piattaforme. Quindi anche lì è difficile parlare propriamente di una scrittura continua di identità e contenuti secondo me.
Molto è cambiato rispetto agli anni ’90. C’è un mio caro amico, il poeta Davide Nota, che ricorda per esempio in alcune delle sue opere con molta chiarezza il senso di liberazione che le prime chat di Internet anni 90 davano quando bastava scegliere un nick e si potevano incrociare altri nick incrociati nello spazio del web. Erano maschere liberatorie e non intrappolanti; rimanevano in uno stato magmatico e performativo, non avevano mai il tempo di solidificarsi in una seconda identità, anzi invitavano all’opposto. Sarebbe bello recuperare quello spirito.
Non c’è digitale per me se non c’è un coefficiente di liveness; per tutti quegli esperimenti performativi che vanno sul digitale, è imprescindibile. La performance, nel nostro caso, è sempre diversa tutte le volte. Il copione che andiamo ad affrontare ha sì delle parti scritte e predeterminate, ma molte altre nascono dall’interazione con i contenuti che vengono creati durante la sera dello spettacolo e sono queste che tengono uno spettacolo più in vita.
Non avrebbe senso altrimenti. Lo abbiamo sperimentato durante le prove. Abbiamo provato a strutturare una scaletta più rigida, a costruire un copione, ma ci siamo presto accorti che non funzionava. Inoltre tutte le volte che facciamo questo spettacolo lo adattiamo al contesto in cui siamo. Lo abbiamo fatto in situazioni molto diverse, come il Museo Mart di Rovereto che è radicalmente diverso dal teatro della Pelanda. Sono molto contento che finora siamo riusciti ad imbastire il progetto con un cast modulare, alternando numero di performer e modalità in presenza e in remoto. Per la prima volta, al Romaeuropa Festival, avremo tutto il cast in presenza in contemporanea e tutti i memer collegati. Sarà la prima volta che presenteremo il lavoro in questa specifica versione che resta comunque ibrida, contemporaneamente da remoto e dal vivo, gravitando tematicamente anche sul rapporto presenza-assenza.
In vista della messa in scena de Il teatropostaggio da un milione di dollari al Romaeuropa Festival 2024, in che modo lo spettacolo riscriverà temporaneamente gli spazi del festival e il relativo modo di attraversargli e viverli?
Come ti dicevo, è la prima volta che abbiamo la possibilità di avere tutto il cast completo, in presenza e online. In questo assetto stiamo proprio provando in questi giorni a capire quali sono le possibilità che ci si offrono. E non voglio anticipare troppo.
Per chi verrà allo spettacolo in presenza, dovrà portare con sé il telefono ben carico con scaricata l’applicazione Telegram; senza, sarebbe impossibile seguire la performance nel buio della platea. Il pubblico sarà parte integrante dello spettacolo. I loro telefoni, gli schermi, le notifiche, il volume della suoneria, il ritmo con cui sceglieranno di far partire i video, gli audio che capiteranno all’interno della chat e creeranno saranno una componente importante dello spettacolo, talvolta la più importante. Ci saranno dei momenti in cui il palco rimarrà vuoto, e lì tutto ciò che si offre alla visione del pubblico non è altri che il micro cosmo di ciò che avviene nello schermo. Sono molto curioso di vedere come si configurerà tutto questo alla Pelanda. Queste cose non sono mai prevedibili.