La tappa italiana della mostra prodotta dal Moderna Museet di Stoccolma, dal Lousiana Museum of Modern Art di Humlebaek, e dalla Bundeskunsthalle di Bonn, è ospitata negli spazi rinascimentali di Palazzo Strozzi. Si tratta di un’operazione di grande impegno a cui il pubblico risponde in maniera adeguata. Marina Abramović, infatti, è una delle grandi protagoniste dell’arte del secondo Novecento, tra le fondatrici della Performance Art ha coerentemente portato avanti questa ricerca, contribuendo alla sua recente popolarità.
L’esposizione è un’occasione per avvicinarsi alla sfaccettata e lunga carriera della Abramović: tra gli ambienti della Strozzina al piano seminterrato dedicato agli esordi e alle prime azioni di una Marina Abramović inizialmente radicata nella cultura underground di Belgrado e poi in rapida crescita con le prime azioni realizzate da sola in Italia. Fino ai piani nobili dove, invece, sono restituite attraverso documentazione e re-enactment le performance con Ulay e, infine, la produzione che dagli anni Novanta l’ha vista ripensare il medium performativo, da sola, in rapporto con gli oggetti transizionali, e poi in relazione con il pubblico.
Marina Abramović The Cleaner è anche una sfida: come si può esporre la Performance Art? A questa domanda le curatrici e l’artista stessa hanno risposto a mio avviso in maniera molto interessante. Certo privilegiando la documentazione d’epoca: non molta, ma anzi una selezionatissima scelta di fotografie, qualche video – o estratto – che documentano le azioni in alcune occasioni celebri come la Biennale di Venezia del 1976, la Documenta di Kassel e la Settimana internazionale della Performance a Bologna nel 1977, sulla Muraglia cinese nel 1989, al MoMa nel 2010, e così via.
Inoltre, l’esposizione presenta anche un fitto calendario di riproposizioni di alcune celebri azioni da parte di giovani studenti che, in orari e giorni stabiliti, le eseguono per un pubblico che probabilmente non ha mai visto gli originali né ha particolare dimestichezza con questa pratica artistica.
Certo l’esecuzione attuale ha ben poco a che vedere con quella storica di Marina (e Ulay, in alcuni casi): cambiano le persone, i loro corpi, il rapporto fra l’opera e il momento storico in cui è stata ideata ed eseguita e neppure c’è la tensione che radica ogni singolo lavoro nella vita dell’autrice. Tuttavia, rispetto alla semplice rievocazione attraverso la documentazione indiretta, il re-enactment ha una validità didattica importante e il suo impiego, supervisionato dall’artista, mi pare particolarmente auspicabile in una rassegna destinata al grande pubblico.
Inoltre, proprio l’esecuzione attuale permette di interrogarsi su tutto quello che la distanzia dall’originale: quest’ultimo non è semplicemente assente, perduto. Si percepisce l’assenza di tutte le componenti in gioco nella Performance Art: suoni, odori, rumori, condizioni climatiche e ambientali, attrazione e repulsione fisica, contatto o distanziamento, e così via. Se affiancato alla documentazione d’epoca – sebbene selezionata come in questo caso – il re-enactment offre una presenza umana dichiaratamente surrogata e, per tale motivo, rievoca l’assente.
Un altro aspetto che la mostra permette di cogliere bene è l’evolversi della ricerca di Marina Abramović, in cui l’azione dal vivo spesso giocata sul tema del pericolo fisico, lascia il posto a un’iconografia in cui nascita e morte, guerra, violenza ed energia vitale sono richiamate in maniera più mediata attraverso il video, la fotografia, la coreografia e la costruzione di installazioni complesse in cui Marina rimane il fulcro, in dialogo con dei bambini, ad esempio, oppure con dei giovani nel pieno della virilità, con i propri genitori, e poi, infine, con un pubblico numeroso e con il quale Abramovic cerca sempre un punto di contatto personale.
Marina Abramović The Cleaner permette di cogliere il rapporto fra corpo e oggetto (o scultura) per esempio, nella cura con cui Abramović disegna i mobili che circondano le azioni dagli anni Novanta in poi: oggetti che sembrano avere i loro antecedenti in molte ricerche dell’Arte Povera, ad esempio, come le scarpe, le scope o le sedie. Mentre il design modernista rimane il modello di molti utensili e dei raccoglitori di Private Archeology (2015).
E cosa dire dei coltelli al posto dei pioli delle scale (in The House of the Ocean View), così imparentati con Action Escalade non-anesthétisée (1971) di Gina Pane. Abramovic d’altronde ha dichiarato il proprio debito verso alcune figure cardine della Performance Art, attraverso la discutibile operazione di appropriazione, Seven Easy Pieces (2007).
Alle linee di forza della Performance Art, cioè all’evoluzione storica del genere, la legano anche i numerosi viaggi, presso popolazioni primitive, con culti che onorano le energie fondamentali della vita umana e del pianeta, così ricorrenti in questa pratica artistica.
Dispiace, tuttavia, che il catalogo sia arricchito da un unico contributo dedicato al rapporto privilegiato dell’artista con il nostro paese, nel quale non viene però avanzata nessuna ipotesi riguardo alla sedimentazione delle numerose e importanti presenze di Abramović in Italia.
Con quali artisti Marina Abramović si è trovata fianco a fianco nelle collettive? con quali critici e galleristi era in confidenza? Provare a rispondere a tali interrogativi, per quanto avrebbe necessitato di ripensare il catalogo, così come si è fatto per la mostra adattata agli ambienti storici di Palazzo Strozzi, avrebbe anche ricostruito attorno al ritratto della grande artista, la trama di scambi – nei due sensi del dare e del riceve – con un sistema dell’arte che se si è mostrato restio a sostenere i performer locali, ma al contempo è stato estremamente ricettivo verso queste ricerche provenienti da oltralpe.
Marina Abramović, The Cleaner, a cura di Arturo Galansino, Fondazione Palazzo Strozzi, Lena Essling, Moderna Museet, con Tine Colstrup, Louisiana Museum of Modern Art, e Susanne Kleine, Bundeskunsthalle Bonn, Palazzo Strozzi, Firenze, 21.09.2018 – 20.01.2019
immagini: (cover 1) Marina Abramović, «Artist Portrait with a Candle (C)», dalla serie Places of Power, 2013, Courtesy of Marina Abramović Archives© Marina Abramović by SIAE 2018 (2) Marina Abramović, «Portrait with Golden Mask», 2009, video (colore, senza sonoro), 30’05”. Amsterdam, LIMA Foundation. Courtesy of Marina Abramović Archives e LIMA, MAC/2017/062. © Marina Abramović. Courtesy of Marina Abramović Archives (3)Marina Abramović, «The Artist is Present» 2010, installazione video a 7 canali (colore, senza sonoro), New York, Abramović LLC. Courtesy of Marina Abramović Archives e Sean Kelly, New York, MAC/2017/071. Credit: Photography by Marco Anelli. Courtesy of Marina Abramović Archives Marina Abramović by SIAE 2018 (4) Marina Abramović, «Rhythm 0», 1974, slide show, tavolo con 72 oggetti della performance, pannello di testo, cm 80 x 400 x 80. New York, Abramović LLC, Courtesy of Marina Abramović Archives e Lisson Gallery, London, MAC/2017/025. Marina Abramović by SIAE 2018 (5) Marina Abramović, «AAA-AAA»,1978, video 2 pollici trasferito su supporto digitale (b/n, sonoro), 12’57”. New York, Abramović LLC. Courtesy of Marina Abramović Archives e LIMA, MAC/2017/041Credit: © Ulay/Marina Abramović. Courtesy of the Marina Abramović Archives. Marina Abramović by SIAE 2018 (6) Marina Abramović, «Rhythm 5»,1974/2011, filmato 8mm trasferito su supporto digitale, b/n, senza sonoro, 8’12”. Amsterdam, LIMA Foundation. Courtesy of Marina Abramović Archives e Lisson Gallery, London, MAC/2017/085 Credit: Ph. Nebojsa Cankovic. Courtesy of Marina Abramović Archives. Marina Abramović by SIAE 2018 (7) Marina Abramović, The Onion,1995, video (colore, sonoro), 20’03”. Amsterdam, LIMA Foundation. Courtesy of Marina Abramović Archives e LIMA, MAC/2017/073. Marina Abramović by SIAE 2018 (8) Ulay /Marina Abramović, «Rest Energy», 1980, video, 16mm trasferito su supporto digitale (colore, sonoro), 4’04”. Amsterdam, LIMA Foundation. Courtesy of Marina Abramović Archives e LIMA, MAC/2017/034. Credit: © Ulay/Marina Abramović. Courtesy of Marina Abramović Archives. Marina Abramović by SIAE 2018 (9) Marina Abramović, «Balkan Baroque (Bones)», 1997, video a un canale (b/n, sonoro), 9’42”. New York, Abramović LLC. Courtesy of Marina Abramović Archives e LIMA © Marina Abramović. Marina Abramović by SIAE 2018 (10) Marina Abramović, The House with the Ocean View, 2002-2018, installazione multimediale, letto con cuscino in pietra, lavandino, sedia con cuscino in pietra, tavolo, gabinetto, base della doccia, doccia, tre scale con coltelli, metronomo, bicchiere d’acqua, vestiti. New York, Abramović LLC. Courtesy of Marina Abramović Archives e Sean Kelly, New York, MAC/2017/072. Credit: Ph. Attilio Maranzano. Courtesy of Marina Abramović Archives Marina Abramović by SIAE 2018 (11) Marina Abramović, «The Kitchen V, Carryng the Milk», 2009, video (colore, sonoro), 12’42”. Amsterdam, LIMA Foundation. Courtesy of Marina Abramović Archives e LIMA. Un ringraziamento speciale a Galleria Lia Rumma Milano/Napoli