Alla galleria Gilda Lavia è in mostra un complesso turbine di questioni, un arioso e strutturato atomo denso di materia, un panorama in bianco e nero che colpisce per la sua efficacia e per la sua cura, un frattale che inizia e termina nel corpo femminile, un corpo-multitudo effimero e concretissimo che si fa motivo dirompente su cui gravitano questioni associate, allineate e complesse, in un certo modo di fare che guarda al tutto, che rifugge le semplificazioni, che mette in relazione questo corpo-senso con la questione meridionale, con il rapporto con le tecnologie, con il fenomeno della moda, con l’antropologia e la sociologia, con la cronaca, con la filosofia del suono, con vecchie e nuove mitologie e narrazioni. Artefice di tale filosofia spaziale confinata nell’hic et nunc del white cube romano è Pamela Diamante (1985), artista barese da sempre attenta a tali questioni, portatrice di un’estetica sempre volta alla relazionalità tra corpi e menti.
L’esposizione, intitolata Le Mangiatrici di Terra, ci dice Giuliana Schiavone: “si configura come un interrogativo estetico e politico su corpi, soggettività e geografie […] che si muove fluidamente tra memoria storica e realtà contemporanea”. La dimensione dialettica tra corpo e terra riecheggiante nel titolo possiamo definirlo il fulcro di tali interrogativi, luogo e spazio di una duplice oppressione, di genere e di classe, lo stesso luogo e lo stesso spazio dove si catalizza la crasi della risignificazione.
Allora le opere a muro, ritratti delle “mangiatrici di terra”, artiste, attiviste, intellettuali, imprenditrici e persone queer che volgono lo sguardo al Sud come luogo critico di riflessione, presentano sulla bocca degli “utensili visivi”, singoli moduli di quelle che sono le sculture a cui si relazionano, elementi che pur coprendone la bocca non la zittiscono, ma ne accentuano la forza sonora proprio nella relazione con queste sculture, le quali da un lato accolgono e dialogano con il pensiero gramsciano, dall’altro, meccanizzate, compiono una sorta di danza che nell’estetica dello spazio espositivo rompe il silenzio per diventare presenza corporea e culturale.
La costellazione di significanti, poi, si arricchisce di un ultimo elemento, le sculture realizzate in dialogo con Antonella Mirco, stilista e fondatrice di Aendor Studio, una delle quali è accompagnata da una traccia audio nata da un’idea dell’artista e prodotta da Carol Rollo, con la voce di Anna Maria Loiacono. In queste opere emerge un’altra dialettica, questa volta tra sessualizzazione e meccanizzazione, tra critica del capitalismo e woman studies. La traccia audio che accompagna l’opera Ferro fragile stravolge alcuni estratti della Carmen di Bizet, la storia di un femminicidio, riscrivendone il senso, capovolgendone il significato, disturbando la melodia e trasformando il bel canto in un suono “strumentale” che parte da Carmen ma che nella sintesi e nella campionatura si fa messaggio sociale e politico.
“Le Mangiatrici di Terra sono un’opera che si manifesta come una creatura polifonica, multiforme e ipermediale” ci dice Claudia Attimonelli, una sorta di creatura sociale e intellettuale che guarda alla realtà e al senso dell’esistenza per essere un punto d’incontro complesso e problematico. Un’esposizione, questa, che, come detto, ci pone tante questioni stratificate ma che nel togliere i fronzoli inutili, limando la superficie, acquista una purezza luminescente, si fa sintesi di quel turbine di questioni che ci mostra, risolvendolo in una risposta secca.
Le mangiatrici di terra, mostra personale di Pamela Diamante, Gilda Lavia, Roma, 05.05 – 05.07
Immagini (cover – 1-2-3) Le mangiatrici di terra, panoramica d’installazione, foto: Giorgio Benni (4) Pamela Diamante, «La questione meridionale», 2025, carta, ceramica e ferro, cm 300×30, foto: Giorgio Benni (5) Pamela Diamante, «Corpi in rivoluzione», 2025, ferro, acciaio e ceramica, cm 270x230x230, foto: Giorgio Benni (6) Pamela Diamante, «Ferro fragile», 2025, ferro e alluminio, cm 99x15x146, foto, Giorgio Benni.