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Home News Focus

Intervista | Federica Di Carlo

In dialogo con Fabio Giagnacovo,  Federica Di Carlo racconta di I See, I See realizzata per la mostra internazionale d’Arte d’Egitto 2024, ospitata nella Piana di Giza.

Fabio Giagnacovo by Fabio Giagnacovo
03/12/2024
in Focus, Interview
Intervista | Federica Di Carlo
Federica Di Carlo è stata una delle protagoniste dell’edizione 2024 della mostra d’arte internazionale d’Arte d’Egitto 2024, ospitata nella Piana di Giza, unica italiana di dodici artisti selezionati da paesi di tutto il mondo. In dialogo con Fabio Giagnacovo Federica Di Carlo racconta del suo progetto site-specific I SEE, I SEE. Mitologia egizia e scienza moderna si incontrano nello sguardo della fisica ottica, sguardo e nel confronto con le monumentali piramidi di Cheope, Chegren e Micerino.

Fabio Giagnacovo: Sei una dei 12 artisti internazionali invitati a realizzare un lavoro per la Mostra Internazionale d’Arte d’Egitto 2024 dal titolo Forever Is Now.04 proponendo I SEE, I SEE, ulteriore tassello di una tua ricerca iniziata tempo fa che porta assieme ottica e percezione, senso di esistenza (la vista esperienziale) ed esperienza cosmica (la vista trascendentale). I SEE, I SEE proietta la mitologia egizia, la credenza che l’umanità si nata attraverso le lacrime del dio Ra in un’esplorazione ancestrale e cosmica attraverso la forma poetica di un discorso strutturato e scientifico. Ancora una volta la tua ricerca si sublima tra mito e scienza, tra intimità e cosmologia, tra terra e cielo – “nella verticalità dello sguardo” come dici tu – nell’indagare il rapporto umano con la potenza naturale, mettendo in relazione la somma delle individualità con l’oltre se stessa. Percepiamo, increduli, una serie di forze dinamiche universali, sensoriali, fisiche, emotive, elegantemente ordinate, lontane dall’entropia, condizione a cui tendono tutte le cose dell’universo e soprattutto l’arte. Con tutti questi elementi e queste incognite come fai a far quadrare il cerchio?

Federica Di Carlo: Anche dentro l’entropia esiste un principio di ordine e viceversa. C’è una sorta di equilibrio che si crea tra le forme della natura e nella loro distribuzione apparentemente casuale per noi umani. I SEE I SEE cerca di inserirsi in questo disordine armonico ispirandosi tra l’altro alla forma-ordine con cui vengono realizzati gli specchi dei telescopi spaziali che guardano verso l’infinito; gli stessi specchi che sono stati progettati ispirandosi agli schemi naturali. Quindi I SEE I SEE non cerca di controllare il rapporto con gli elementi vivi entropici come luce, vento, sabbia, perlomeno è così che ho pensato, ma li accompagna, ci danza. E lo riesce a fare proprio grazie, in realtà, al principio naturale che sta alla base della composizione delle lenti. Quando si crea un’installazione pubblica esterna è necessario accogliere l’imperfezione e le modifiche da parte di madre natura.

Vorrei soffermarmi sul fatto che I SEE, I SEE è una ricerca iniziata diversi anni fa, un metodo, “un esercizio per il pubblico a guardare in modalità nuove”, intermezzata da ricerche e analisi diverse per poi tornare oggi a relazionarsi con le piramidi della piana di Giza. È una ricerca, dunque, che non si esaurisce, che ritorna e si amplia di sensi ed elementi. C’è sempre un senso progressivo nelle tue operazioni artistiche?  

I miei lavori tendono a funzionare come funziona un organismo, ovvero fanno parte dello stesso sistema e sono sempre in dialogo, come del resto è la vita sulla terra e fuori. Per questo motivo non amo limitarmi e definire un’opera conclusa sempre e comunque. Mi piace potermi lasciare una porta aperta per una possibile evoluzione o cambiamento di un lavoro come nel caso di I SEE I SEE che nasce nel 2015 proprio dalla necessità che avevo di allontanare lo sguardo dagli schermi e riportarlo sullo schermo della natura in dialogo con i paesaggi di ogni fase della mia vita. È un’opera che si adatta ogni volta ed evolve ogni volta, non ha necessità di finire perché il suo dialogo è in perenne contatto diretto con la realtà che cambia costantemente e che si trova di fronte ad essa. Cambia la luce, cambiano le nuvole, cambiano i movimenti del deserto, cambia il vento.

Salta subito all’occhio come la peculiare scenografia della piana di Giza, uno spazio incredibilmente atipico per un’esposizione artistica che si presta in maniera assoluta alla sperimentazione visivo-esperienziale dell’opera d’arte, in qualità di spazio estremamente caratterizzante. È ambiente del sogno che si inarca in spazio metafisico assoluto, in questo caso, nella relazione con le opere artistiche attorno (diverse le opere, oltre la tua, che creano un rapporto fortissimo con le piramidi. Che ruolo giocano nella tua installazione le piramidi di Cheope, Chefren e Micerino?

Nei miei progetti il medium ambiente è estremamente fondamentale, anche lo stesso spazio vuoto di una galleria può trasformarsi attraverso un colore in un liquido nel quale immerge i lavori. In questo caso un ambiente reale esterno, un deserto, che ha per orizzonte le grandi piramidi, doveva essere messo assolutamente in dialogo col lavoro. Forse è stata proprio questa la parte più difficile, armonizzarsi in modo non banale con queste enormi “sculture” e con i colori e la luce del deserto. Quest’intenzione mi ha portato a utilizzare una forma che fosse estremamente importante per la cultura egiziana ma anche un elemento fondante all’interno della mia ricerca. L’occhio è stato il primo strumento in assoluto dell’essere umano per conoscere il mondo, la visione è stata il primo strumento con il quale accedere al di fuori dei nostri confini terrestri. Nella mitologia egizia l’occhio è stato l’origine dell’essere umano generato dalle lacrime del Dio sole. Infine, ho saputo solo dopo, da un mio amico fisico, che lo scienziato che ha capito per la prima volta il meccanismo di visione dell’occhio fu proprio l’egiziano Ahlazen che morì al Cairo. Tutto si è armonizzato da solo, bastava mettersi in ascolto del luogo.. parte tutto da lì.

Un’esposizione nel deserto è quanto di più lontanamente immaginabile da un’“esposizione ideale nel white cube”, ideologia, questa, sicuramente datata ma comunque imperante tutt’oggi. Tu parli addirittura di una tempesta di sabbia che ha imperversato durante l’allestimento della mostra. Installare un’opera d’arte in tali condizioni lascia immaginare caratteri eroici sconosciuti – potremmo spingerci a definirli inappropriati – alla postmodernità. Tenacia di un certo avanguardismo perduto appartenente a qualche Grande Racconto. Tralasciando il visibile, cioè tutto quel complesso sistema di ingranaggi che è l’organizzazione di una mostra tanto importante, cosa significa tutto ciò per l’artista che si spende tanto per mostrare e di-mostrare la sua opera al meglio?

Ogni luogo ti porta delle sfide diverse e come sempre accade nel costruire un’installazione e nella sua messa in posa, ho imparato dopo tanti anni che l’arte contemporanea è simile a un esperimento. Bisogna sapersi adattare, surfare nelle difficoltà, essere disposti a spostare il proprio desiderio in modo tale che possa esistere combaciandolo con lo stato della natura. Però per quanto molto stressante, a volte mi rendo conto che è la parte che preferisco del mio lavoro, perché rappresenta il momento in cui lo si vedrà per la prima volta dove doveva essere. E anche in questo caso ho imparato tanto. Hai citato la tempesta di sabbia che ci ha accompagnato per tre giorni e tre notti nella piana di Giza mentre dovevamo assemblare le lenti, costruire la struttura in ferro con condizioni estreme, con un vento che soffiava a 20 nodi e la sabbia che finiva in ogni singola parte del corpo e dell’opera. Ritorno a casa con un’esperienza nuova, una consapevolezza di sapermi misurare con l’elemento del deserto che per me era sconosciuto, le piramidi sono privilegiate dalla visione notturna, anche questi sono elementi di sogno che un artista conserverà dentro.

L’Egitto è uno stato vicino eppure lontanissimo dall’Occidente. Lo è in ogni sfaccettatura caratterizzante un sistema geopolitico. Una mostra internazionale come questa, in territorio non occidentale, composta da artisti provenienti da ogni quadrante del mondo, presuppone un’estrema eterogeneità. Tale eterogeneità è effettivamente presente nelle 12 istallazioni che, cosa non scontata, fanno tutte parte di un ragionamento ben strutturato e lineare in una scelta curatoriale estremamente oculata. Allo stesso tempo, le 12 istallazioni provengono tutte, ad eccezione di un paio forse, da un modo di pensare l’arte e di esercitarla limpidamente occidentale. La stessa curatrice del progetto e fondatrice dell’evento Nadine Abdel Ghaffa ha detto: “Alla fine tutto il mondo crede in un unico grande messaggio”. Se fosse così significherebbe che il pensiero globalizzante e gentrificante occidentale ha avvilito il senso dell’arte che per sua essenza può racchiudere infiniti messaggi e produrre infiniti percorsi di pensiero, anche puramente inconvenienti. L’arte ha dunque un unico grande messaggio e quindi un significato univoco, che, va da sé, è proprio quello convenientemente occidentale? E quindi, l’arte può essere qualcosa in più di uno strumento di valori sociali che l’Occidente determina come positivi?

 ARTE dovrebbe essere di più di una foto su Instagram. L’arte doveva salvare il mondo, si diceva una volta e lo si scriveva anche sulle facciate dei templi e poi dei teatri… Oggi questo concetto si sta modificando di pari passo con la situazione socioculturale e politica del mondo. L’arte dovrebbe cercare di resistere e mantenere un punto di vista intimo e universale insieme, senza perdersi dentro sterili apparenze. In effetti nella mia pratica cerco di usare elementi estetici per attirare chi guarda verso un contenuto ingannevole che spesso e volentieri ha sempre più livelli di lettura, accompagnati da concetti profondi. Ma è lo spettatore, occidentale o orientale che sia, che decide a quali livelli accedere e a quali no. Anche alle piramidi è successa la stessa cosa, l’opera è stata usata in vari modi. Quello che mi ha stupito più di tutto, è stata la necessità da parte del pubblico di esistere dentro l’opera, di mettersi sul retro del lavoro per farsi fotografare attraverso la visione delle lenti. Questo era un livello che io non avevo considerato ma evidentemente è quello della società net di oggi.

immagini: (cover 1 ) Federica Di Carlo,«I SEE, I SEE», mostra internazionale d’Arte d’Egitto 2024, novembre 2024, ph: MO4 Network (2 – 3) Federica Di Carlo,«I SEE, I SEE», mostra internazionale d’Arte d’Egitto 2024, novembre 2024, ph: Ahmed Hamdy (4-5) Federica Di Carlo,«I SEE, I SEE», mostra internazionale d’Arte d’Egitto 2024, novembre 2024, ph: HF4

 

 

 

 

 

Tags: arsarshakeFederica di Carlofisicainstallationmitologiamostra internazionale d’Arte d’Egitto 2024mythologyphysicsPiana di Gizasite specific
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