Survive the Art Cube è una serie di interviste ad artisti di diverse generazioni. Il titolo riprende il più famoso libro di Brian O’Doherty a volerne ricalcare il piglio critico. Ha il fine di comprendere meglio come questi artisti percepiscono lo spazio analogicodigitale in cui siamo immersi e la nostra contemporaneità, che senso e che importanza ha lo spazio artistico oggi e che senso ha nel nostro presente fare un percorso artistico. I tempi cupi impongono una riflessione sulla realtà e solo gli artisti, forse, possono aprirci la mente.
Iniziamo con Mariella Bettineschi. Un’artista totale che non si è mai adagiata sulla sua carriera artistica, sconfinando sempre verso l’oltre di una realtà complessa e celata. Le sue numerosissime sperimentazioni, che accolgono l’astrazione, l’ottica, il mosso fotografico, il ricamo, eccetera, eccetera, fino ad arrivare all’iconologia, ne sono una chiara dimostrazione. Ascoltare Mariella Bettineschi significa addentrarsi in una concezione artistica che bilancia sensazione e concetto, entropia estetica ed entropia sociale, spazio interiore e spazio esterno.
Fabio Giagnacovo: Oggi ci sono artisti multimediali dappertutto, basta un pc e ci si definisce tali. Lei invece è una vera artista multi-mediale, ha sperimentato con la pittura, la scultura, il disegno, il collage, la fotografia e infine il digital painting. Le sue opere, di serie in serie, svelano nuove dimensioni del pensiero, aderiscono ad un rinnovato zeitgeist pur restando imperiture come la poesia. Viste d’insieme nella loro diversità si svelano estremamente coerenti. In una realtà così eccessivamente frammentata e confusa come quella che stiamo vivendo (e forse nel mondo dell’arte questo è ancora più esasperante) qual è il segreto per rimanere fedeli a se stessi?
Mariella Bettineschi: Non ci sono segreti, basta ascoltare ciò che il lavoro chiede. Io sono le mani, il sapere intellettuale e tecnico che metto a disposizione perché l’opera nasca. Le tecniche che uso (disegno, ricamo, collage, fotografia digital painting…) sono solo trappole per dar forma ad un’immaginazione, a un’intuizione.
«Più i rapporti tra due realtà ravvicinate saranno lontani e giusti, più l’immagine sarà forte, più avrà potenza emotiva e poetica», scrivo nel 1990.
Una cosa che non si dice mai è che ogni lavoro è come una persona: è specifico e ha i suoi bisogni, vuole delle cose in particolare e continua a chiamarti per ottenerle. Ma tu ancora non sai quali sono e devi scoprirlo tramite tentativi: provi, inventi, sposti, lasci perdere, togli, abbandoni, ricominci. Poi un giorno, di colpo, ogni cosa trova il suo posto e rivela il senso che contiene.
L’anno scorso ha realizzato la bella installazione, composta da una quadreria di ritratti provenienti dalla serie L’era successiva, che ha fatto da scenografia alla sfilata Prȇt-á-Porter Autunno Inverno 2022-2023 di Dior. Non è stata l’unica volta che Maria Grazia Chiuri ha creato affascinanti melting pots tra moda e arte contemporanea, così come sempre più spesso vediamo collaborazioni tra industria del lusso e arte. Alcuni commentatori pensano che questa sia una prova del declino dell’arte, della sua incapacità di creare un immaginario nello spazio analogicodigitale, cercando accreditamento nell’industria del lusso. Io credo che sia controproducente guardare al presente con gli occhi del passato e non sono così negativo al riguardo. Ci può parlare della sua esperienza e di cosa ne pensa di questa tendenza?
Prima di tutto, da sempre, gli artisti hanno lavorato con committenti ricchi e potenti, che si chiamassero Chiesa, principi, ricchi mercanti…quindi nulla di nuovo. Forse i committenti contemporanei sono le grandi Maisons della Moda visto che i Musei, soprattutto nel nostro Paese, dichiarano sempre di non avere soldi.
A parte queste considerazioni generali, la mia collaborazione con Dior non è stata una committenza vera e propria considerato che i 56 Ritratti esposti alle Tuileries erano già nati, infatti il ciclo L’era successiva inizia nel 2008 e continua ancora.
L’invito di Maria Grazia Chiuri è stata una vera emozione. Voleva fare, insieme alla curatrice Paola Ugolini, una grande «quadreria militante» e le mie donne con lo sguardo raddoppiato erano perfette per questo concetto. Inoltre è stata una grande esperienza: vedere prodotti i miei Ritratti alti tre metri è stato un colpo al cuore, erano di una potenza incredibile, riempivano lo spazio con una forza magnetica, ci guardavano ricordandoci che «…ambiente, animali, vegetali, minerali, donne e uomini sono tutti collegati in un equilibrio molto fragile. Comprendere e rispettare questo equilibrio è entrare ne L’era successiva».
Molti dei suoi lavori sono permeati da un’aura femminista. Il ruolo esistenziale della donna ed il suo senso sembrano balenare in modo accennato, sottile, ma potente ed indomito, c’è una naturalezza estremamente gentile nella sua traduzione e manipolazione delle donne dipinte dagli artisti del passato nei ritratti femminili de L’era successiva, ad esempio, così come in quelle frasi dorate, della serie di inizio anni ’80, Morbido. È una pratica, la sua, rara ai giorni nostri, di una violenza poetica dirompente (tutto il progetto L’era successiva lo è). Che senso ha per un’artista, oggi, tra ideologie post-gender, schwa e asessualità cyborg, rivendicare, come si può leggere nella sua biografia, «la centralità della donna, le sue infinite capacità di mettere al mondo il mondo»?
Il mio lavoro parte da me, donna, dal mio cammino verso l’invenzione di un alfabeto femminile, in un mondo patriarcale dove tutto, da millenni, era sotto lo sguardo maschile.
Ora, finalmente, si svela un mondo multiplo, complesso, dove il maschile e il femminile rivelano le loro infinite sfumature. Mondo sempre esistito (basta guardare le figure mitologiche presenti in tutte le culture) ma rigorosamente nascosto, proibito, come lo sono state le donne.
Allora sono necessarie nuove riflessioni, nuove inclusioni, e se questo avverrà veramente vorrà dire che saremo entrat* ne L’era successiva.
Lei, con i suoi digital paintings piega il digitale al suo volere, grazie anche alla sua lunga esperienza artistica. In questi lavori permane una manualità che accentua il pensiero, essi non vengono mai fagocitati dal bit e sono indubbiamente opere, seppur nate grazie anche allo spazio digitale, pensate per uno spazio analogico. Usa la tecnologia come strumento, al pari di un pennello o di un ago. Siamo sempre più portati a pensare che un PC possa sostituire a pieno la nostra esistenza analogica dimenticando di essere fatti di carne e di sensazioni. Lei cosa ne pensa e, da artista, cosa crede sia importante sfruttare al meglio delle sempre nuove tecnologie?
Io ho avuto una formazione accademica solida dove era normale acquisire tutte le tecniche tradizionali (dalla pittura alla scultura, dal disegno al mosaico o all’affresco…). Ad un certo punto, scopro le grandi possibilità del digitale, ho più di 40 anni, ma capisco che lì c’è un tesoro. Imparo, con fatica, l’uso di questo strumento, che non sostituisce, ma si aggiunge alle tecniche acquisite. Io sono una vecchia artista e quindi forse condizionata dal bisogno che l’opera sia pensiero che diventa carne, ma non escludo che in futuro possano esserci forme, tecniche, linguaggi diversi.
Ogni giorno sentiamo di qualche operazione artistica dal sapore pubblicitario o di qualche NFT banalissimo venduto a cifre esorbitanti. Vediamo sempre più spesso artisti che rivendicano di non aver studiato arte e, sfruttando le dinamiche di internet, guadagnano molto più di tanti che l’hanno fatto. Con il web 2.0, proiettati verso quello 3.0, nell’assoluto dominio dell’informazione sull’estetica, ci dicono che siamo tutti artisti post-concettuali. Contemporaneamente gli stessi professori accademici consigliano, durante il percorso di studi, di guardare altrove, non fissarsi troppo sull’ArtWorld. Emerge nel quotidiano sempre più chiaramente un messaggio anti-accademico a cui fa eco l’opinione di molti che l’Accademia (mi riferisco esclusivamente a quella pubblica) l’hanno frequentata, riservando ad essa parole poco gentili. Che senso ha, secondo lei, studiare in un’Accademia di Belle Arti oggi?
Questo è un grande tema!
Nelle Accademie è sparito il disegno, i giovani artisti sono spesso molto ignoranti rispetto alla storia dell’arte, sono i bisnipoti di Duchamp, imparano, come vetrinisti, ad allestire «installazioni» e a preparare perfetti portfolii.
Forse non dovremmo più chiamarla Accademia ma Scuola di Alta Formazione Artistica, dove lo studio sia di altissimo livello, dove tutte le discipline (quelle manuali, quelle digitali, quelle culturali) siano apprese con grande serietà.
Su questo sono molto severa, è ora di finirla che tutti si ritengano artisti.
L’arte è un percorso difficile, lungo, ruba tutte le energie alla vita, per tutta la vita.
immagini: (cover 1) Mariella Bettineschi, illustrazione di Nikla Cetra (2) Mariella Bettineschi, «Morbido», 1980, organza, cotone, lana, oro, 20x20x3 cm (3) Mariella Bettineschi, «L’era successiva», Sfilata Prȇt-á-Porter Autunno-Inverno 2022-2023, Dior (4) Mariella Bettineschi, «L’era successiva (Ingres, La grande odalisca)», 2015, pittura digitale, stampa diretta su plexiglas, 120x80x2 cm (5) Mariella Bettineschi, «L’era successiva (Biblioteca Malatestiana)», 2016, stampa digitale, stampa diretta su plexiglas, specchio, 155x100x4 cm (6) Mariella Bettineschi, «Il primo racconto», 1997, stampa digitale, stampa diretta su foglio di acetato, 130×91 cm