La scultura «non finita» come metafora esistenziale di due diversi zeitgeist, ci mostra la trasformazione nel tempo delle nostre più profonde paure e turbamenti. Se nel Rinascimento ciò era mediato dalla religione cattolica, nel nostro presente la parte più importante inevitabilmente la gioca la natura fluida del digitale.
I Prigioni e la Pietà Rondanini su tutti, sono i massimi esempi di non finito michelangiolesco. Una vera e proprie frattura del classicismo covata dal genio inquieto e perennemente insoddisfatto per tutta la sua vita, e maturata soltanto nei suoi atti finali. Michelangelo, come sappiamo, sosteneva che l’opera d’arte fosse già presente nel blocco di marmo e il suo compito fosse quello teleologico di tirarla fuori attraverso i medium immortali della scultura: la mazzuola e lo scalpello.
Davide Quayola nasce più di mezzo secolo dopo, i medium che preferisce utilizzare sono digitali, composti da algoritmi e da intelligenze artificiali, e tra le sue sempre affascinanti opere ritroviamo il topos michelangiolesco del non finito. Un non finito molto diverso da quello de I Prigioni che pur portando alla mente un sistema di pensiero fortemente caratterizzante della crisi rinascimentale e, da quel momento in poi, sempre presente nella storia dell’arte, ne stravolge il senso, mostrando qualcosa, in profondità, di molto diverso.
I non finiti di Quayola, sviluppati in diversi progetti dello scorso decennio, sono creati da un braccio meccanico collegato ad un’IA composta da algoritmi, che l’artista programma e fa lavorare su delle scansioni tridimensionali di sculture classiche. Mostrando i risultati, ma spesso anche il procedimento della venuta al mondo di queste opere, attraverso il lavoro del braccio meccanico, notiamo enormi differenze e interessanti punti di contatto con le opere di Michelangelo, nell’essenza ontologica del manufatto stesso.
L’effetto più perturbante dell’equilibrio che già era delicatissimo in Michelangelo è l’assenza di qualunque forma di teleologia. Ironico come proprio su di essa si basava tutta la riflessione michelangiolesca. Michelangelo eliminava il soverchio, e nelle figure emerse dal freddo marmo appariva l’estasi, l’emozione della pietra, la dinamica dell’essenza. Lo scalpello di Quayola, invece, è l’algoritmo computerizzato. Le sue dinamiche, seppur totalmente riconducibili all’azione dell’artista, presentano l’incognita post-umana. Il “principio attivo che mette in movimento la totalità del divenire” si intacca nel codice binario, inciampa su di esso: lo scalpello da estensione della mano diventa estensione del cervello e da estensione del cervello a estensione del pensiero, lo stesso fa il codice binario che da estensione della mano diventa estensione dell’hardware e infine estensione della somma dei pensieri in gioco, quello umano e quello artificiale.
L’emozione della pietra è filtrata da un Dio che da pura luce è diventato pura elettricità. Se mettiamo in relazione I Prigioni con le Unfinished sculptures di Quayola notiamo il decadimento, naturale e inevitabile, dell’aura culturale nelle seconde, a favore, però, di un’aggressività essenziale, zeitgeist contemporaneo, che pone in contatto mondo analogico e mondo digitale attraverso la pixelizzazione della scultura, glitch tridimensionale dello spazio. L’altro da sé, distinto e concreto, a cui si collegano I Prigioni, quella fede estrema e catartica che muove la raspa nelle mani di Michelangelo, collassa nella rizomatica e metamorfica realtà contemporanea, che nella fluidità spazio-temporale immerge l’analogico e il digitale in un Tutto integrato.
Allo stesso tempo, però, notiamo anche una incredibile somiglianza tra queste opere d’arte così lontane nel tempo eppure così vicine. In un certo senso la percezione di Michelangelo è la stessa di quella di Quayola. Michelangelo, come sostenne Delacroix, ha una concezione pittorica della scultura, non lavora per masse interne ma segna un profilo che va a riempire togliendo, lavora in un ossimoro, e parte della sua genialità risiede proprio in questo modo atipico di procedere. Solo focalizzandosi così sullo spazio attorno l’immagine, in aperta antitesi con il tuttotondo, riesce ad intrappolare il movimento de I Prigioni nella pietra, dando alla materia una qualità non soltanto formale, ma anche concettuale. Interessante che proprio Quayola in un’intervista, parlando delle sue Unfinished sculptures, dice: «Mi sono focalizzato attorno allo spazio di queste sculture, non sulle figure stesse». Questo suo senso pittorico lo ritroviamo in tutte le sue opere: chiaramente in tantissimi suoi lavori statici o in movimento bidimensionali, rigorosamente digitali, ma anche nei suoi non finiti, che proprio attraverso questa sua sensibilità riescono ad agganciarsi al genio rinascimentale. L’immagine della scultura classica alla base delle Unfinished sculptures non è altro che un simulacro svuotato di carattere ma non di pathos, ed ecco che nella sua traduzione computerizzata, algoritmica, artificiale e post-umana, in cui l’artista funge da direttore di tutto il processo, quel movimento intrappolato nella pietra acquista una sfumatura esistenziale nel pattern che tende all’astrazione, perdendo il suo carattere morfologico specifico.
La rappresentazione della statua muta al mutare del medium – «il medium è il messaggio» – allora i prigionieri o, nella Pietà Rondanini, Cristo e la Madonna, si trasformano in statue classiche tradotte, tradotte ancora e ancora traducibili. L’essenza della fluidità digitale intrappolata nella pietra. La frustrazione de I Prigioni, così aulica e totalizzante, diviene stupefacente messa in scena frammentata e ricondotta a modello, della nostra frustrazione.
Questa riflessione su sculture così cronologicamente lontane eppure l’una alla base concettuale dell’altra, non vuole in alcun modo mettere in relazione i due artisti, se non per il modo in cui riescono entrambi magistralmente ad analizzare lo spirito del loro tempo, producendo quelle affascinanti scintille che sono le loro opere d’arte. Ciò che invece è particolarmente interessante è come il soverchio cambi con il tempo, come la statica pietra grezza che nel ‘500 intrappolava le anime scolpite da Michelangelo, nel XXI secolo si modella, nelle opere di Quayola, baroccamente e meccanicamente, in un’illusione paralizzante. Lascia stupefatti e affascinati, in bilico tra l’essere e l’apparire, emblema monumentale di una crisi – letteralmente, dunque di una valutazione, riflessione e discernimento – non religiosa come i capolavori michelangioleschi, bensì così aleatoria e connessa ai diversi piani dell’esistenza da sprofondare nel misticismo della realtà contemporanea.
immagini (tutte) Quayola, «Unfinished Sculptures», serie, 2014 – ongoing