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Gian Maria Tosatti, I giorni del silenzio – Devozioni IX – I, 2008, fotografia digitale, Premio Terna 01 (premio online, categoria Gigawatt)
Gian Maria Tosatti è nato a Roma nel 1980. La sua formazione avviene in ambito performativo con un corso di studi seguito presso il Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale di Pontedera [dove apprende la lezione sul «teatro povero» di Jerzy Grotowski]. Si trasferisce poi a Roma dove opera sul territorio con una ricerca di connessione tra architettura e arti visive realizzando grandi installazioni site specific. Sono frutto di questa ricerca tutte le opere successive, installative e fotografiche, oltre ai due progetti: Devozioni e Landscapes, realizzati in collaborazione con la Fondazione Volume di Roma. Il primo è un ciclo di dieci grandi installazioni per spazi architettonici particolari, il secondo è un percorso di arte pubblica legato ai luoghi di conflitto urbano. Attualmente la ricerca dell’artista è legata a tre nuovi progetti, Fondamenta, basato sull’identificazione degli archetipi dell’era contemporanea, Le considerazioni sugli intenti della mia prima comunione restano lettera morta, ciclo dedicato agli enigmi che risiedono nella memoria personale e alle tracce che gli uomini lasciano alle loro spalle, e le Sette Stagioni dello Spirito, una indagine mirata a comprendere i limiti del bene e del male nell’uomo. Gian Maria Tosatti ha partecipato a numerose esposizioni, personali e collettive, in Italia e all’estero. Vincitore di diversi riconoscimenti, tra cui il Cavalierato giovanile della Provincia di Roma, la menzione speciale della giuria al Talent Prize 2011. Ha ricevuto il Talent Prize dell’edizione 2014, è stato riconosciuto vincitore ex aequo anche per il concorso Un’opera per il Castello a Castel Sant’Elmo (Napoli) oltre ad essere tra i finalisti del prestigioso Premio Furla.
I giorni del silenzio – Devozioni IX – I è l’opera con cui Tosatti ha partecipato alle prima edizione del Premio Terna con lo pseudonimo «Hôtel de la Lune», nome dello studio artistico da lui diretto e di cui Elisabetta Mancini cura gli allestimenti. Si tratta della documentazione fotografica dell’installazione realizzata presso l’idrovora abbandonata della Centrale Montemartini a Roma. L’immagine cattura la tensione tra la quiete apparentemente imperturbabile dell’ambientazione e il travolgente scorrere del tempo, e la sublima in un senso di abbandono e stasi. L’intervista si è svolta via e-mail in agosto 2014, ripresa e aggiornata nel settembre 2014.
Quale è il ruolo dell’artista nel sistema attuale dell’arte e della società?
Il ruolo dell’artista non si definisce al presente. È un ruolo antico. È colui che si prende cura dell’anima dei cittadini per dirla con Socrate. Il suo è un ruolo originario. Resta costante nel tempo. Ciò che cambia è la percezione che se ne ha. Se si comincia a dire che la decorazione è arte si incorre nell’errore di considerare artisti i decoratori e quindi cominciare a credere che in un dato tempo il ruolo dell’artista sia di decorare. Ma è, appunto, un errore. Bisogna tornare alle origini, sempre. Per riconoscere un artista nel presente bisogna compararlo con chi riconosciamo artista secondo la definizione classica. Dante Alighieri è un artista, Giuseppe Verdi è un artista, Caravaggio è un artista, Carlo Levi è un artista. E questo per parlare di una grande tradizione che è quella italiana, in cui l’artista ha un’altissima vocazione politica. Domandiamoci che ruolo avevano questi artisti nella società. Ma sarebbe una domanda retorica perché lo sappiamo benissimo. Ed allora poniamoci una domanda vera. Quali artisti oggi possiamo comparare a quelli che ho citato senza che il raffronto sia improponibile?
Gli artisti sono cavalieri di un ordine antico. Che sia un ordine guerriero o monastico non fa alcuna differenza come ci fa notare Agamben nel suo ultimo libro, perché entrambi si fondano sugli stessi principi. L’ordine degli artisti, come quelli d’armi o di spirito, esiste per salvare gli uomini. D’altra parte resta valido il credo dostoevskijano per cui è la bellezza l’unica forza capace di salvare il mondo.
Premio Terna pubblicò, in una delle sue prime edizioni, una ricerca previsionale dello stato dell’arte dal 2010 al 2015. I risultati hanno aperto una finestra su quello che è agli effetti il panorama attuale. Tra questi, anche il fatto che la crisi avrebbe portato ad un superamento dell’assuefazione rispetto alle regole dominanti, oltre ad un maggiore impegno sociale dell’arte. È quello che sta accadendo davvero?
Sì. È accaduto. La crisi è la sola igiene dell’arte per parafrasare Marinetti. La quantità di denaro che è stata investita nell’arte in questi anni è uno scandalo. E non lo dico usando un’espressione idiomatica. Mi si intenda letteralmente. Il denaro è lo scandalo dell’arte. Ha finito per contare più delle opere, più degli artisti. Ho visto signori senza cultura e senza passione investire quattrini nell’arte nella maniera più cieca e inconsapevole e venir celebrati dal sistema come moderni Mecenate. Che questi signori abbiano meno soldi e quindi smettano di falsare con essi il mercato dell’arte è solo un bene. Possa la crisi durare in eterno. Auguro ad ognuno di noi di essere più poveri di denaro, ma più ricchi di rispetto per l’essenza del nostro lavoro e non per la sua quotazione (che spesso è il risultato di altri valori rispetto a quelli propri dell’arte).
Cosa ha significato per la tua esperienza e per la tua ricerca la partecipazione al «Premio Terna»? Quali opportunità concrete, anche di mercato, ha generato?
Intendiamoci. Sono molto critico verso il sistema perché io ho a cuore il sistema dell’arte. Non voglio distruggerlo, ma voglio che sia sano e non dopato. Ho partecipato al Premio Terna e ciò mi ha dato l’opportunità di conoscere altri artisti, alcuni curatori e di avere un riconoscimento pubblico. Per il tipo di lavoro che faccio non posso però dire di avere avuto opportunità concrete da questo premio. Ho, infatti, vinto con l’unica fotografia che abbia mai stampato in vita mia.
Cosa dovrebbe avere (che ancora non ha) l’Italia a sostegno della creatività per rendere il nostro paese sempre più competitivo a livello internazionale? E quale paese, su scala globale, ritieni sia il migliore da questo punto di vista?
L’Italia non ha una legislazione che consenta ai cittadini di devolvere parte delle loro tasse in cultura. Considerando che i governi che si sono succeduti sono stati miopi al punto di non aver mai compreso ciò che finanche il più ignorante degli italiani sa, e cioè che la cultura è il vero asset principale di questo paese, penso che consentire direttamente ai cittadini di decidere su cosa investire sia quanto mai utile. Gli Stati Uniti lo fanno e per questo le opportunità per gli artisti sono molte e diversificate. Ma anche paesi come l’Olanda, la Svizzera, la Germania, che hanno un forte sistema pubblico di intervento sulle arti, potrebbero essere considerati esempi virtuosi. Noi semplicemente non abbiamo né una politica di gestione pubblica né una politica che incentivi il settore privato. Più o meno siamo al livello dei paesi africani. Con la differenza che, grazie alla nostra eredità che si trasmette comunque alle nuove generazioni sotto forma di suggestioni, siamo ancora tra i migliori produttori di cultura al mondo.
Terna è un’azienda che si occupa di trasmettere energia al Paese. Il suo impegno con Premio Terna si focalizza sulla trasmissione di energia all’arte e alla cultura e nella creazione di una rete di sostegno e sviluppo del talento. Ritieni la formula del «Premio Terna» ancora attuale per la promozione dell’arte? Hai qualche suggerimento da dare per la prossima edizione?
Il premio è un fatto chiuso. C’è un opera che vince. L’azienda la paga e la acquisisce. Non c’è dialogo. Un’azienda forte come Terna dovrebbe, invece, stare molto più vicina agli artisti ai loro progetti, che non ai loro prodotti finiti. Terna potrebbe aiutare chi ha un bel progetto a realizzarlo. È quello il momento in cui l’arte ha bisogno di sostegno, non quando i problemi sono stati risolti, l’opera è finita ed è solo il momento degli applausi. In quel momento lì l’artista è già altrove.
In quale direzione si è evoluta la tua ricerca più recente?
Attualmente il mio lavoro continua a mantenere come fuoco centrale l’identità dell’uomo, tuttavia ad essersi evoluta in questi ultimi anni è principalmente la ricerca del contatto con il pubblico. Le ultime installazioni che ho realizzato, infatti, non hanno alcuna mediazione. Vengono realizzate in edifici che affacciano direttamente su strada. Si apre una porta e si lascia che il pubblico entri incuriosito senza spiegargli nulla, senza che ci siano cartelli, insegne e nemmeno pubblicità. Tutta la comunicazione è fondata sul passaparola. L’opera, spesso è estremamente mimetica, per cui si vive l’esperienza senza avere neppure il sospetto di aver attraversato un progetto di arte contemporanea. Ma d’altra parte la bellezza non è qualcosa che va incorniciato o definito da una didascalia. È una esperienza quotidiana. Quello che allora sto cercando di raggiungere è il punto di fusione fra arte e realtà.
Ci puoi anticipare progetti e prospettive future?
Al momento sto lavorando a Napoli, una città che mi sta dando molto, in termini artistici e umani (come se poi fosse possibile tenere divise le due cose). Qui porto avanti un progetto molto importante chiamato Sette Stagioni dello Spirito, assieme ad una cordata di partner che rappresentano tutte le istituzioni della città, culturali, religiose, civili, e che dunque cerca di essere una specie di grande romanzo collettivo. Con uno dei lavori di questo ciclo ho appena vinto, tra l’altro, il Talent Prize. E nel frattempo, Napoli è stato anche il teatro di un altro premio importante, quello istituito dalla Soprintendenza a Castel Sant’Elmo, che mi ha consentito di realizzare un’opera dedicata ad Antonio Gramsci e a quelli che come lui sono riusciti a cambiare la storia da dentro una cella. E’ un enorme campo di grano nel cuore di quella che per secoli è stata una terribile fortezza carceraria. Alla fine di questo percorso triennale penso che riprenderò completamente Fondamenta, il mio progetto principale, che si divide fra New York e il Mediterraneo. Lascerò la città e sarà un grande dispiacere. Ma mi lascerò dietro molto materiale di quella che io chiamo «archeologia», ossia le tracce di una storia vissuta assieme ad una comunità e che è composta di resti di questo percorso, da tutto ciò che può essere estratto e mantenuto come testimonianza, dai disegni progettuali a degli oggetti che possono lasciare i luoghi per cui sono stati pensati senza perdere la loro carica di senso e di bellezza. Questi lavori saranno prima raccolti in una mostra al Madre, per poi uscire dalla città come testimoni di un fenomeno consumatosi in un tempo umano, grazie a coloro che vorranno prenderli in consegna, altri musei, o fondazioni, o collezioni private.