AFTERALL è il duo formato dai fratelli Silvia e Enzo Esposito, vivono e lavorano tra Napoli e Città del Messico. Dalle prime esperienze nel 2004, con l’installazione site-specific Sogno Comune come «quartapittura» presso la galleria Lia Rumma di Napoli, il duo ha esposto in diverse Istituzioni pubbliche, tra cui: Museo MADRE e PAN e Vigna Pignatelli (Napoli), Fondazione Filiberto Menna (Salerno), Fondazione Francesco Fabbri, Fondazione Sandro Penna (Torino), Ex Gil (Roma). Le loro opere sono state installate al Castello di Rivalta di Torino, sulla facciata della stazione di Mergellina a Napoli, presso l’Ambasciata italiana a Bruxelles per il Blumm Prize. Hanno partecipato al Festival d’Art Numérique in Pays d’Aix et Marseille, alla XII Biennal des Jeunes Créateurs d’Europe et de la Méditerranée. Sono vincitori del Premio Celeste 2012 (Premio del Curatore), finalisti al Francesco Fabbri For Contemporary Art Prize 2012, il loro progetto “Residente/Clandestino” è stato segnalato dalla giuria del concorso «MACRO Artists in residence». Recentemente il duo è stato invitato dall’azienda «A Glass Brand» per una residenza artistica in Messico. AFTERALL collabora attivamente con «Aporema Onlus», organizzazione sociale non-profit, riflettendo sul ruolo dell’educazione «dove la didattica si intreccia con l’estetica, questa come atto di nascenza dell’uomo».
Chiara Pirozzi – Cosa significa per voi abbinare le pratiche quotidiane alla ricerca artistica?
Afterall – La nostra ricerca trova il suo interesse dall’analisi della perdita delle certezze dell’agire nel quotidiano, ossia nel momento in cui il significato di quest’ultime si perde nelle logiche della quotidianità stessa. Le azioni routinizzate che intratteniamo, quei «camminamenti meccanici» che percorriamo, fanno sì che i significati e le motivazioni dell’agire stesso vengano a sbiadirsi o a perdersi. La nostra riflessione indaga da una parte lo svuotamento di senso delle azioni quotidiane, dall’altra l’indifferenza nei confronti dei luoghi che fanno da contesto ai nostri «attraversamenti quotidiani».
Che funzione attribuite nella vostra ricerca al concetto di «Errore»
L’Errore è inteso come un’occasione di conoscenza, non ci interessa farne l’elogio. Nel nostro lavoro l’errore, ciò che sta o viene relegato ai margini, vuole acquisire di nuovo il suo senso di «Errare», come un deambulare qui e lì che può condurre verso un’altra visione, come quell’ombra che è sempre conseguenza di una luce che guarda altrove: una «bellezza errata».
…e a quello di «Traduzione»?
Qualsiasi linguaggio tecnico o artistico utilizzato rappresenta una forma di trapasso, di traduzione da un codice interpretativo all’altro. Nella nostra ricerca il linguaggio è come fosse un espediente utilizzato non come mera analisi semiologica, ma come mezzo d’interpretazione alternativa della contingenza. A noi interessa indagare il momento processuale della comunicazione, la «zona grigia» tra il referente e il significante. Un «brusio di senso barthesiano», imprescindibilmente legato al tempo presente, come ricordare e non ricordare, ma soprattutto un momento in cui non si tratta più di tradurre, né di interpretare, né di riferire, ma di far sì che la realtà irrompa nella mente che la domina.
Nel vostro lavoro diviene necessario l’uso combinato di differenti media e tecniche, proprio in funzione dell’esigenza di ritrovare lo scarto, la perdita o la mutazione del senso nel momento in cui uno stesso messaggio transita da un mezzo all’altro. Dalle trascrizioni sulla carta carbone, agli scatti in polaroid, dalla performance ai video, dalle installazioni audio fino all’uso di tecnologie come i tablet…
Il salto da una forma all’altra crea necessariamente dei luoghi indeterminati dell’esperienza narrata. Prendendo in esame la personale del 2012, Autotelico, negli spazi della galleria Dino Morra Arte Contemporanea di Napoli, procedendo dall’atto al video e alla foto, abbiamo voluto trasformare sperimentalmente i rapporti tra i vari lavori, come un’unica installazione, materializzandoli tramite diverse forme di registrazione fisica dell’esperienza. Autotelico ha per noi i caratteri di un esercizio perpetuo nel quale ogni elemento si combina con l’idea precedente e che, nel frattempo, tende a perdersi in trasposizioni linguistiche, comunicative e in altre idee, ridimensionando il significato intrinseco di qualsiasi forma visiva specifica. Una di queste «tessere» è Senza Titolo, un’opera che si compone di due polaroid piegate lungo il loro asse verticale centrale e montate l’una specularmente l’altra. Le due polaroid sono state realizzate fotografando lo stesso soggetto a distanza di un secondo, ossia un precedente scatto fotografico analogico realizzato dieci anni prima. Si tratta di una gestualità fronte-retro capace di modificare i punti di vista dell’opera e, di conseguenza le prospettive interpretative della realtà quotidiana, ponendo particolar attenzione alla ri-attualizzazione della memoria nel momento in cui essa si «riproduce» nel tempo.
In uno dei lavori realizzati in Messico, Come quando per errore salto un gradino, percorriamo una scala utilizzando un tablet come fosse uno specchio, in una performance dove i piani si ribaltano e qualche volta incidentalmente si sovrappongono. L’azione di passeggiare è per noi importante, perché crediamo che lo spazio si costruisce tramite l’attraversamento, dove il percorso è esso stesso un luogo che, camminandovi, sembra edificarsi. L’atto stesso di avanzare a piedi guardando attraverso un filtro, come uno specchio o un monitor, ci predispone ad osservare attraverso prospettive altrimenti ignote, seguendo le tracce segnate da un riflesso o una rifrazione. Il semplice atto di osservare sarà perturbato da alcune circostanze che ci porteranno a indugiare su particolari apparentemente estranei, come le nostre impronte digitali o la polvere formatasi sul nostro filtro. E’ questa inaspettata distrazione che ci condurrà a contemplare un’altra realtà che si potrebbe definire «laterale». Si tratta di brevi interruzioni di una visione, un gioco tra decisione e nessuna decisione, un intervallo nel quale ci chiediamo: perché devo decidere? E così ci si ritrova, indecisi, a dover prendere l’ennesima decisione…
Cosa rappresentano per voi le performance clandestine?
…ci viene in mente un progetto in cui stiamo portando a termine una ricerca sull’idea di creazione di «accaduti possibili». Nello specifico, la materia d’interesse è l’«invenzione dell’irrealtà (fake)», in particolare quando questa si occupa di realtà concrete. A partire da tali assunti, prendiamo come esempio l’ordinamento giudiziario: questo nella sua realtà fenomenica, e a monte la giurisprudenza come struttura e imperativo, rappresenta un’architettura complessa che arriva a produrre delle «apparenze di fatto», nel senso di situazione-tipo ipotizzata. Partendo da questo, intervenendo e interagendo con l’ambiente circostante, mettiamo in scena una serie di performance clandestine, ossia azioni mimetizzate con la realtà quotidiana e nate per gemmazione di essa, in grado di dar vita ad attimi di realtà residuale, svincolati, vale a dire, dalla prassi del vivere quotidiano. In questo progetto prevediamo poi di realizzare un mockumentary, dove finzione e cronaca si fondono, partendo dal quotidiano per giungere al «quotidiano possibile». In un’altra installazione, Didascalie di tre azioni private, tre performance clandestine sono restituite sotto forma di didascalie audio, essa è la traduzione pedissequa dell’esperienza performativa raccontata a terzi. Si tratta di una comunicazione asettica, una sorta d’informazione di servizio; la trasmissione è svuotata da qualsiasi elemento espressivo.
Nel 2012 siete stati i vincitori del Premio Celeste, con il premio del curatore assegnatovi da Antonio Marras, supportato da una giuria con tra gli altri Lorenzo Bruni, Alberto Dambruoso, Katia Baraldi, con l’installazione Fine a se stesso…
Nella nostra installazione Fine a se stesso ciò che ci interessa sottolineare sono quelle modificazioni, siano esse arricchimenti o perdite, che il significato originario della comunicazione subisce nel momento in cui sussiste un passaggio di stato. Fine a se stesso è il risultato materiale di un’azione realizzata a quattro mani. L’operazione performativa ha inizio da una suggestione nata in seguito al recupero di una lettera scritta a Brooklyn (New York) da Madeline Giordano sotto dettatura della madre Philomenia de Francisco. La lettera, datata 9 gennaio 1975, è indirizzata a Giuliana Di Francesco di Qualiano, a Napoli, con preghiera di lettura da parte di sua figlia Maria Esposito. Si tratta di una comunicazione non lineare e a intermittenza nella quale sia il mittente e sia il destinatario, a causa della loro condizione di analfabeti, sarebbero impossibilitati a comunicare fra loro se non fosse per la mediazione interpretativa delle rispettive figlie. L’operazione che mettiamo a punto consiste nel reiterare più volte il gesto della trascrizione della lettera, copiandone le pagine attraverso l’utilizzo della carta carbone. Il risultato è un nuovo e ulteriore transito nella comunicazione delle informazioni, una trasmissione nella quale i segni tendono a perdersi e i significati a restare custoditi e sbiaditi nelle pieghe della carta carbone. Il testo «in-leggibile» non serve a trasmettere l’idea di messaggio segreto o nascosto, ma piuttosto il potenziale di una diversa forma di lettura a noi «in-conosciuta», come un’epifania e una pluralità di sensi sempre in circuito.
Il vostro lavoro si esprime soprattutto nella sua fase processuale, vale a dire durante i procedimenti e gli andamenti che vi portano alla realizzazione dell’opera formalmente finita.
L’opera, secondo noi, è trasparente, nel senso che non crea immagine, ma conduce al di là del limite contingente, è l’insieme di un processo e di un tempo che prende forma dall’interazione con il contesto, fatta di osservazione e rispetto, attraversamento paziente e costante, ma, stando attenti ad evitare di conoscere fino in fondo le cose su cui proviamo a indagare, serve anche a impedire a noi stessi di avere una meta.
Nel 2011 siamo stati invitati, per conto di «Aporema Onlus», a realizzare un lavoro permanente in una scuola napoletana «adottando» gli allievi di una classe dell’Istituto Comprensivo Statale S. Minucci. Negli spazi dell’edificio che ospita la scuola scoprimmo un piano inferiore abbandonato e, percorrendo quei numerosi ambienti, c’imbattemmo nella cucina del refettorio, nella palestra, in registri di classe, birilli, porte chiuse dal terremoto dell’ottanta: ci trovammo così in una condizione particolare, sospesa, che poi abbiamo vissuto per circa sei mesi e che è infine scaturita in Bordenline, il lavoro che abbiamo realizzato in quell’occasione. L’opera ha preso corpo tracciando alcune linee rosse su parte del soffitto del piano inferiore della scuola in corrispondenza delle pareti del piano sovrastante, intanto durante la loro realizzazione è nato in noi un certo innamoramento per quello spazio così evocativo e, negli intervalli della loro esecuzione, cominciammo a giocare con il piano dismesso, dilungandoci in un gioco completamente fine a se stesso. Con pause molto lunghe sistemammo gli oggetti presenti e inserimmo dei nuovi possibili, lasciandoci favorire dalla già presente complessità del luogo. A distanza di un anno abbiamo ri-fotografato e ri-elaborato il lavoro, creando così diversi strati di oscurità e ottenendo una sorta di rimozione del suo stesso punto di partenza.
Oggi a suggestionarci in un modo speciale c’è un altro sito, sicuramente più grave per storia e contenuti, che si è aperto ai nostri occhi come fosse un tessuto o un organo in sviluppo continuo, quello che amiamo definire un «paesaggio involontario». Non diciamo ancora il suo nome, non solo per scaramanzia. E’ un luogo dove passato, presente e futuro coesistono in compresenza. Quelle zone marginali del paesaggio, della memoria, che suscitano la nostra attenzione per la loro tendenza all’indefinizione, a un destino irrisolto.
Uno dei vostri ultimi progetti nasce a Queretaro, in Messico, dove siete stati invitati da un’azienda italiana che opera in Messico a stabilirvi per alcuni mesi in residenza nei loro spazi per realizzare un lavoro specifico per il luogo. Cos’è nato nel vostro studio messicano?
Nella fase della costruzione e ripensamento di uno spazio di circa 500 metri quadrati, per la quale diverse professionalità sono state messe a confronto in uno skill sharing, l’azienda A Glass Brand Mexico ci ha invitato in residenza ad operare negli ingranaggi della macchina dell’impresa. Una modalità sicuramente alternativa e stimolante, uno scambio pluridisciplinare in cui il modello arte-impresa si è costituito come modello di eccellenza, promuovendo la figura dell’artista come professionista e acceleratore in ambiti produttivi. Il progetto di ricerca è la messa in atto di un processo che si costituisce dall’interazione con il contesto, dall’entrare in contatto con la materia, prima che di essa si formi il concetto. In questo caso, il luogo dell’indagine è stato l’intero primo piano dell’edificio, uno spazio/cantiere.
L’oggetto/intenzione portato da Napoli è stato il Super Santos: una palla da gioco, dai costi popolari, simile nel disegno ai palloni utilizzati nelle competizioni ufficiali, ma con le sue striature nere spesso poco aderenti ai solchi loro corrispondenti, incisi nella plastica arancione. Questo oggetto, utilizzato spesso in strada o nei luoghi più improvvisati, ha da sempre stimolato l’ingegno dei giocatori invitando loro a riformulare la funzione dello spazio, per il tempo indefinito di una partita, reinventando e riadattando il campo da gioco e le sue strutture portanti: Un luogo momentaneo, improvviso, precario, con regole da riformulare.
I nostri passi nella struttura messicana sono stati invece dettati da un tentativo di annotazione e di anamnesi visuale dello spazio, attraverso l’uso della performance. Tra queste il percorrimento della costruzione utilizzando un decanter, primo oggetto di interesse trovato nella struttura, questo particolare contenitore simile ad un’ampolla in vetro o cristallo trasparente, dedito alla decantazione del vino. E’ stato per noi facile pensarlo come strumento, filtro per l’indagine verso un’osservazione aptica dello spazio, ma anche in maniera figurata, come luogo del sedimentare.
La residenza è divenuta un progetto in progress che ci vedrà ritornare il prossimo giugno con un nostro project studio, una stanza di passaggio, una walk room, uno spazio di confine, una camera di compensazione dall’intera struttura. Uno spazio di confronto, dinamico, che crei una rete di connessioni, dialogando con la vivace scena messicana.
Su quali progetti state lavorando?
In questo periodo sostanzialmente stiamo riflettendo su un’idea di “monumento fine a se stesso”, continuamente ri-costruito e riadattato fino a diventare una forma totalmente ibrida, un documento costantemente ri-scritto, un gioco che inventa regole, una memoria ri-attualizzata, un paesaggio involontario. Il nostro modus operandi prevede spesso l’intreccio tra più progetti, a volte questi includono alcune opere realizzate nel corso degli ultimi anni che, di volta in volta, come in occasione della mostra presso l’Ambasciata italiana a Bruxelles per il Blumm Prize per l’opera Dimenticare a Memoria, interagiscono con le condizioni specifiche dello spazio espositivo, mutando radicalmente assetto, in un dialogo sempre diverso tra opere esistenti, nuove produzioni site-specific e architettura di ciascun luogo ospitante, ridefinendo costantemente le regole per giocare a giochi nuovi.
Immagini
(1 ) Afterall, Test da video Come quando per errore salto un gradino, 2014; (2) Afterall, Dimenticare a memoria (Forgetting by memory), 2013, courtesy Dino Morra Arte Contemporanea, Naples; (3) Afterall, Fine a se stesso, 2011-2012, courtesy Dino Morra Arte Contemporanea, Naples; (4) Afterall, 1° Piano in costruzione, studio project, sede residenza. Querétaro, Messico; (5) 1° Piano in costruzione, studio project, sede residenza. Querétaro, Messico; (6) Afterall, Test shot – Decanter, 2014.