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Home News Focus

«Software» al Jewish Museum

Elena Giulia Rossi by Elena Giulia Rossi
05/05/2018
in Focus, News dal Passato
«Software» al Jewish Museum

Nel 1970 il Jewish Museum of Art a New York inaugura Software. Information technology: its new meaning for art, una mostra all’epoca di grande visione e anche di grande audacia. Se è vero che nuove prospettive e idee richiedono sempre del tempo prima di essere accettate e assimilate, la questione diventa ancora più delicata quando in gioco ci sono delle tecnologie, macchine che, accanto alle loro potenzialità, mettono in vetrina anche il loro margine di errore e di fallibilità. I mal funzionamenti delle apparecchiature tecnologiche procurano, all’epoca, danni molto grossi all’immagine della mostra, così come all’equilibrio finanziario del museo che entra in una vera e propria crisi. Il riscontro negativo manifestato al momento dell’evento si è tradotto, poi, in altrettanta popolarità  della sua visione il cui eco ha resistito al tempo. Software è diventata un vero e proprio punto di riferimento, tra i più citati case studies dalla ormai prolifica letteratura su curatela museale e arte tecnologica.

La visionarietà che lo statement di una mostra simile implica, ha anticipato – infatti –  le rivoluzioni estetiche dettate dall’impatto tecnologico sull’arte a seguire. Dopo Cyberserendipity, che all’ICA (Londra, 1968) mette in mostra il mondo tecnologico attraverso i suoi prodotti finiti, e come follow-up della mostra The Machine at the End of the Mechanical Age (MoMA,1968), Software pone l’attenzione sul sistema di calcolo delle macchine in termini di processualità. Il curatore Jack Burnham presenta la mostra, quindi, come una forma di indagine sui nuovi processi introdotti in campo culturale attraverso il calcolo, superando il tema tecnologico in termini di prodotto finito. Applicando il concetto di programma all’arte, Burnham traccia i parallelismi che esistono tra progetti che si basano su tecnologie della comunicazione (fax, tele-printer, sistemi audio – visivi) e quelli che utilizzano il linguaggio come materia prima. Ecco dove arte tecnologica e concettuale trovano, nella praticità delle cose, terreno comune. Questo spiega il significato del coinvolgimento in mostra, di artisti concettuali, come John Baldessari, Hans Haacke e Joseph Kosuth. Baldessari, artista da sempre interessato ad un utilizzo creativo della parola autonomo, presenta in questo contesto il suo Cremation Piece dove i dipinti di più di un decennio sono distrutti e «impastati» per diventare biscotti e per essere poi chiudi in un urna dove la memoria del loro ciclo vitale di nascita e morte è affidato ad una placca in bronzo.

Software-s

Inizia così l’indagine sul processo; l’arte muove i primi passi per avventurarsi dentro il dispositivo tecnologico, inteso anche come meccanismo linguistico, per mettere in atto una decostruzione del linguaggio informatico e dell’informazione, utilizzando gli strumenti della sua antica funzione, ovvero quella di specchio sociale. E’ con questo spirito che nasce il progetto di Levine, System Burn Off; parte dall’asserzione che arte e informazione combaciano per creare un lavoro, dove un video che ritrae l’artista nella vita quotidiana nel suo studio, e un apparecchio di registrazione che ne riproduce le conversazioni al telefono, diventa informazione sull’informazione dell’arte, essa stessa opera.

Il catalogo della mostra, Labyrinth, è invece uno dei primi testi ipertestuali, programmato, per la sua fruizione interattiva, dallo scienziato Ted Nelson. I visitatori sono abilitati a consultare i catalogo attraverso postazioni e con l’utilizzo di tasti che permettono la selezione di frasi e testi per una successiva stampa personalizzata. Il catalogo diventa progetto nel progetto, dove scienza e arte si combinano in una struttura flessibile, necessariamente pensata per essere tale anche nei suoi contenuti, con la stesura – per esempio – di testi brevi. Labyrinth lascia traccia dei processi di amalgamazione tra sperimentazione scientifica e processi artistici, oltre ad una documentazione fotografica che comprende anche le fasi del processo e scene dietro le quinte.

Software ha significato, inoltre, uno dei primi scambi tra musei e industria con la sponsorizzazione tecnica da parte dell’American Motors Corporation. Esempi come questi, per l’epoca fallimentari, si sono rivelati invece case – studies fondamentali in termini pratici di curatela ma anche in termini teorici nell’apertura di una visione che, prima dei tempi, ha anticipato l’intreccio tra arte, tecnologia e vita.


Software: Information technology: its new meaning for art, Jewish Museum, New York, September 16 – November 8, 1970. Participating artists: Vito Acconci, David Antin, Architecture Group Machine M.I.T., John Baldessari, Robert Barry, Linda Berris, Donald Burgy, Paul Conly, Agnes Denes, Robert Duncan Enzmann, Carl Fernbach-Flarsheim, John Godyear, Hans Haacke, Douglas Huebler, Joseph Kosuth, Nam June Paik, Alex Razdow, Sonia Sheridan, Evander D. Scjhley, Theodosius Victoria, Laurence Weiner.

Immagini

(1 cover) Carl Fernbach- Flarsheim – The Boolean Image/Conceptual Typewriter, 1970, Software, The Jewish Museum, New York (2) Nicholas Negroponte with with the Architecture Machine Group , M.I.T., Seek, The Jewish Museum, New York, 1970 (3) Software, Jewish Museum, New York, cover, 1970.

Tags: Agnes DenesAlex RazdowArchitecture Group Machine M.I.T.arsCarl Fernbach-FlarsheimConceptual artDavid AntinDonald BurgyDouglas HueblerEvander D. ScjhleyexhibitionHans HaackeJack DurnhamJewish MuseumJohn BaldessarriJohn GodyearJoseph KosuthlanguageLaurence Weiner.Linda BerrisMoMANam June PaikPaul ConlyprocessRobert BarryRobert Duncan EnzmannSonia SheridanTheodosius VictoriaVito Acconci
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