NONE è un collettivo italiano di architetti estremamente poliedrico, interessato a ricercare i confini dell’identità, il rapporto uomo-macchina, quello tra cinema e arte, e tutto quanto i cambiamenti della storia e delle tecnologie che le danno forma si presti al loro sguardo. Operano in una varietà di campi, dalle installazioni immersive all’organizzazione di simposi con professionisti di diversi ambiti, critici, artisti, produttori, organizzatori, pensatori. Guidati da spirito di ricerca e di sperimentazione la loro identità di dispiega man mano che il lavoro va avanti e che la loro creatività è chiamata ad entrare in diversi ambiti e discipline. Angelo Di Bello li intervista nel loro studio e la loro conversazione ci accompagnerà su Arshake per quattro puntate. In questa prima parte il collettivo racconta del loro modo di operare e introduce due importanti progetti: Hybrid Space, realizzato per Toyota e No Strata, concepito per lo spazio Farol Santader a San Paolo del Brasile.
Primo pomeriggio di un giorno infrasettimanale di fine ottobre, dell’ultimo giorno di ottobre. Non fa freddo, siamo a Roma. Però sulla panchina dove aspetto l’ora esatta per bussare al portone e non fare né tardi né presto all’appuntamento, il vento porta delle note di quello che fra poco sarà il leitmotiv per strada e sui mezzi: è iniziato l’inverno, il freddo è arrivato di colpo. Mi accendo una sigaretta e, ripassando mentalmente il materiale che mi sono studiato prima dell’appuntamento, mi guadagno la metà di panchina baciata dal sole, un sole caldo e presente, e penso: bisogna impegnarsi con tutto il corpo e con ogni gesto per percepire il passaggio fra una stagione e l’altra. Non bisogna aver fretta di vedere, ma bisogna avere la pazienza di sentire. Arrivo davanti al portone dello studio in orario, citofono e mi viene incontro uno dei fondatori del collettivo NONE.
Questa chiacchierata sotto forma di intervista l’ho in mente da quando sono stato spettatore di un loro progetto, il Simposio, dove artisti e curatori erano chiamati a discutere di arte, società, tecnologia, aggregazione, rivoluzione, mercato… un po’ tutto insomma, ma con l’idea che fosse un discorso aperto, dove condividere idee, certamente, ma anche creare dubbi, incrinature e nuove fessure nelle quali far germogliare nuove idee ancora e nuove azioni. Durante quell’incontro si era potuta respirare un’aria di volontà d’azione diversa, non il solito discorso chiuso all’interno dei confini del mercato dell’arte e autoreferenziale ma la dichiarata necessità di fare qualcosa, aggregare energie e idee per muoversi nell’oggi della società.
Nell’ufficio siamo seduti intorno a un tavolo tondo di legno che richiama con la sua forma e materia il lavoro artigianale di chi quel legno lo ha scelto, trasformato e reso un’opera utile e bella. I tre ragazzi che hanno fondato i NONE mi sono intorno: Gregorio, Mauro e Saverio.
Angelo di Bello: Chiamarsi NONE è un po’ una dichiarazione d’intenti, mi fa pensare al fatto che “il nessuno” nega la sua identità ma nello stesso tempo regala un’identità collettiva, può essere chiunque. Per voi che cos’è il vostro nome?
Diciamo che ci sono tante considerazioni dietro. Il fatto che un collettivo si firmi NONE è già un ossimoro in un certo senso, anche perché formato da tante persone: tutti e nessuno. Forse c’entra anche il tema dell’autorialità della firma, nel senso che non conta tanto il nome dell’autore; non siamo gli unici artisti a farlo e probabilmente tutti gli artisti che fanno così pensano che non conti tanto la firma ma il cosa, non il chi ma il cosa. E poi, per esempio, nei menu di tutti i software l’impostazione di default è “none”, quindi è una cosa che ci è tornata davanti agli occhi tante volte, il fatto di partire dalle impostazioni di default era interessante…
… e anche spingerci con la parola business affianco, mettendola come “none of your business”, come “non sono affari tuoi”, c’è sempre piaciuto.
Vi siete conosciuti con il primo lavoro, «Hybrid space» per la Toyota. Come vi siete trovati a fare questo progetto?
Il fatto è stato che le nostre due realtà Studio Nebula e Noidea Lab, lavoravano spesso a contatto con le agenzie di comunicazione in progetti in cui veniva contemplato il multimediale, ci siamo conosciuti così, al lavoro…
…ci siamo subito capiti con due parole, parlavamo la stessa lingua…
… e quindi ci siamo detti: «perché questa sintonia non la uniamo e creiamo qualche cosa di diverso?», cioè c’è stata praticamente subito la voglia di coinvolgerci a vicenda in vari progetti, quasi una voglia di metterci alla prova per vedere cosa poteva nascere e venirne fuori…
…e forse questa componente, da una parte del coraggio e dall’altra della, in un certo senso, pazzia – anche perché molti progetti che andavamo a fare all’inizio in realtà non li sapevamo fare, nel senso che prima lo fai ma è facendolo che impari – ci ha spinto a proporre cose anche un po’ azzardate e ha rafforzato questa visione comune.
Passerei subito all’attualità, ero molto incuriosito dall’ultimo progetto che avete fatto, «No Strata», come lo raccontereste? Come nasce? Cosa vi ha portato a lavorare a San Paolo e soprattutto cosa vi ha portato a interagire con la società attraverso una visione a strati della società stessa?
È particolare, perché ci hanno commissionato questo lavoro dal nulla, cioè trovandoci su google, all’interno di una ricerca che facevano gli organizzatori di questo Farol Santader che è uno spazio per le arti immersive internazionali a San Paolo…
…ci è piaciuto molto anche il fatto che poi ci hanno lasciato carta bianca, nel senso che ci hanno dato delle informazioni sul luogo e sulla città ma ci hanno lasciato molto liberi, con tutti i pro e i contro che può creare la libertà eccessiva. Perché a quel punto noi siamo partiti a complicarci la vita…
…facciamo la cosa tecnologicamente e tecnicamente più complicata che riusciamo a immaginare…
…il sistema più complesso…
…ma anche la cosa più carica di contenuti: lasciamo un messaggio per la società, un’analisi critica, lasciamo il segno; tutti questi buoni propositi difronte a tutta questa libertà. È abbastanza maturo, ci siamo detti, perché lascia un messaggio, lascia una sensazione ma è anche molto radicato nella realtà e nella società, nella struttura della realtà e della società, sociale, economica e politica contemporanea ed è anche molto assoluto.
Centra anche l’obiettivo di non raccontare esclusivamente San Paolo. L’opera non sei riferisce esclusivamente a quel momento, non racconta esclusivamente noi, non è autoreferenziale. Delinea, piuttosto, un percorso, un cammino nella selva oscura della vita che è assoluto e termina con una visione di una nascita. Si può intuire dalle immagini: al termine compare una luce che prende un po’ forma come di un feto, di una ecografia neonatale, quindi lascia lo spettatore con questa immagine di una nascita sullo sfondo della città che conduce forse verso una nuova umanità. Il curatore Valentino Catricalà l’ha chiamata un post – umanesimo, comunque una visione futura di evoluzione diciamo, se non di progresso, di evoluzione…
… o se non di evoluzione un momento dove tu spettatore, avendo effettuato un percorso, stando dentro un ambiente che ha il suo ritmo, ritmo al quale ti devi adeguare, ti ritrovi a un certo punto dove tutto si ferma per lasciare spazio appunto a quell’immagine molto più importante e assoluta anche rispetto a il ritmo frenetico…
…non abbiamo descritto l’opera, tu volevi che descrivessimo l’opera…
No, assolutamente. Non era in questione il descrivere l’opera ma più che altro capire voi come ne volete parlare. Vi sembra di aver detto quello che volevate?
C’è tantissimo altro da dire, nel senso che adesso noi ti abbiamo raccontato il nostro approccio, come l’abbiamo vissuta, però quello che affronta l’opera è altra cosa. È un’opera molto complessa perché racconta tanti strati, appunto, della nostra società, da quello economico e sociale a quello infrastrutturale e tecnologico. L’opera è perciò strutturata così: è un percorso nel quale abbiamo una rete, una maglia di quadrati, sono lastre 90×90 di ottone, che ricorda un po’ le vie, la maglia ippodamea di una città ortogonale – in particolar modo a San Paolo, dove l’opera è stata presentata e concepita, si trova ai piani alti di un grattacielo e ha tutti i palazzi attorno ed è un impatto visivo molto forte – quindi una maglia ortogonale senza fine che lentamente sale e dalla parte inferiore, al di sotto, c’è un bassofondo che ricorda un po’ una città post punk, un po’ distopica, piena di cavi aggrovigliati, di marchingegni meccanici mentre salendo si ha un livello superiore molto lucente; dall’alto si ha la luce che si irradia e che scansiona questa maglia come in una sorta di controllo.
Affrontiamo la vita di una megalopoli, con tutte le componenti che la contraddistinguono: l’iperconnessione, questo moto frenetico (perché tutte queste lastre sono percosse da alcuni motori e quindi si muovono molto velocemente) fino a giungere, al termine del percorso, a una luce che ricorda appunto una nuova nascita.
… to be continued… (la conversazione di Angelo di Bello con il collettivo NONE prosegue giovedi)
immagini: (cover 1) NONE, ritratto (2,3) None – Toyota, «Sensitive Spheres», 2015 (4-8) NONE, «NO STRATA», Farol Santander, San Paolo. Photo credits Carol Quintanilha.