Slavoj Žižek è senza ombra di dubbio il filosofo più stravagante del panorama contemporaneo. Definito “l’Elvis del pensiero filosofico”, quasi a sminuirne la portata intellettuale delle sue riflessioni, è riuscito a farsi largo, malgrado il carattere di nicchia che la filosofia assume ai giorni nostri, in tutti i media contemporanei, compreso Internet, forse proprio perché, come scrive Marco Senaldi nell’introduzione al libro in questione: «Žižek più che introdurre dei contenuti “rivoluzionari” nei media, riesce a “rendere evidenti” le condizioni entro cui si svolge il discorso mediale».
Il trash sublime è un piccolo libro formato da tre saggi, tutti scritti negli anni zero del Duemila, riferiti all’arte e all’architettura contemporanea, che, come in tutti i sui saggi, si basano sulle riflessioni di tre pensieri filosofici specifici, bussola di Žižek in tutti i suoi avventurosi discorsi: quello di Lacan, quello di Marx e soprattutto quello di Hegel. Il trash sublime è il titolo del primo di questi tre saggi, il più assoluto ed interessante, senza nulla togliere alle riflessioni sul rapporto tra architettura e stato sociale ed antropologico del secondo (Il parallasse architettonico) e quelle sul rapporto tra arte e realtà e arte e verità del terzo (L’insostenibile leggerezza di essere nessuno).
In questo primo saggio, invece, il filosofo sloveno cerca di delineare l’essenza dell’opera d’arte, di trovarne il suo significato contemporaneo, un po’ come O’Doherty con Inside the white cube o Danto con Che cos’è l’arte?, ma negando l’auraticità artificiale e assoluta dello spazio dedicato all’arte, base ideale delle riflessioni dei due pensatori. Secondo Žižek l’arte pre-moderna aveva un contesto, spesso religioso, e quindi una funzione simbolica, l’arte contemporanea, invece, nasce quando il simbolico scompare e i sui tentativi, anche i più shockanti, sono rivolti a “provocare” un contesto, quasi nella speranza che il simbolico riemerga a nobilitarla. Iniziatori di questa tendenza sono coloro che hanno “concretizzato” l’impasse dell’arte, Duchamp e Malevič, coloro, cioè, che hanno mostrato il potenziale (in negativo) dell’opera d’arte, per cui, oggi, come già diversi decenni fa, nell’assoluto deserto delle ideologie contemporaneo, la radicale incongruenza dell’opera trash, la Merda d’artista ad esempio, con il luogo dell’arte, cosa crea, se non la consapevolezza della specificità di quel luogo? Un uroboro in cui l’opera d’arte crea continuamente il luogo deputato all’arte e il luogo deputato all’arte crea l’opera d’arte: un sistema intoccabile che nel trash cerca di aggrapparsi per non soccombere. Una questione molto interessante che apre ad un’infinità di dibattiti ad essa collegati.
Sarà forse vero che tutte quelle opere da noi considerate come rivoluzionarie (la Merda d’artista di Manzoni, la sensibilità d’artista di Klein, il kitsch di Koons, gli animali in formaldeide di Hirst, la banana di Cattelan, eccetera, eccetera…) siano in realtà reazionarie, in quanto agenti che tentano una restaurazione artistica di un senso dell’arte ormai perduto? Sarà forse Duchamp, colui che ha nobilitato il trash nell’arte, il padre di questa reazione in aperto contrasto con l’ideologia, che per sua natura è rivoluzionaria? L’ideologia dello spazio espositivo (O’Doherty) non è forse l’essenza della sua effettiva assenza?
Slavoj Žižek, Il trash sublime, Mimesis, 2013