Oggi, il primo di tre appuntamenti con Francesca Gallo che ripercorre, attraverso l’analisi di lavori seminali, il ruolo della parola [scritta e parlata] nella video arte.
Tanto l’uso artistico del video è connesso alle esperienze di musica sperimentale, quanto invece la parola sembra estranea al video delle origini. E’ noto che molti dei pionieri della videoarte, infatti, provengono dal mondo delle ricerche elettroacustiche: da Nam June Paik a Bill Viola fino a Robert Cahen, ad esempio, che si sono formati nell’ambito di laboratori di ricerca sulla musica elettronica negli anni Sessanta e Settanta. Il video delle origini, pertanto, predilige il silenzio, i tempi lunghi e la camera fissa tipici stilemi dell’approccio minimalista e concettuale, in cui prevale una dimensione metalinguistica, e pertanto, l’oggetto di indagine coincide con i mezzi stessi della ripresa video.
La parola, quindi, era da tempo immediatamente identificata con la comunicazione di massa e con la narrativa, cioè ha nel suo background la zavorra del significato, della funzionalità; è troppo prosaica, rassicurante, o appunto letteraria e teatrale per essere accolta nell’ambito del video sperimentale. Se non in una maniera tautologica, appunto: come fa Dan Graham che ad esempio che descrive ciò che vede nel famosissimo Performer/Audience/Mirror (1975); oppure Vito Acconci che in Home Movies (1973) descrive i propri lavori a un interlocutore immaginario, ma rivolgendosi alla telecamera e quindi indirettamente verso il pubblico.
Negli stessi anni, Martha Rosler in Semiotic of the Kitchen (1975) mette in scena un improbabile alfabeto sessuato all’interno di una moderna cucina. Infatti, seguendo l’ordine alfabetico, l’autrice – ripresa in bn a camera fissa – nomina ciascuno degli utensili mimandone contemporaneamente, con crescente foga e violenza, l’utilizzo. Solo che in questo funzionamento non vi è alcuna trasformazione di cibi, nessuna pietanza viene preparata: il tutto avviene su un registro simbolico, in cui il femminile si trova tradizionalmente relegato. Per le ultime sei lettere dell’alfabeto, infine, vengono meno anche gli oggetti che fanno da supporto a questo ironico lessico domestico. La Rosler mima con tutto il proprio corpo la forma delle lettere nell’aria, armata di affilati e inquietanti coltellacci. In questo caso il linguaggio verbale viene assunto nella sua forma più astratta e apparentemente scientifica, l’alfabeto ma si riesce a introdurre anche in questo universo rarefatto una forte soggettivazione: la protagonista è una donna, che usa prima gli oggetti legati alla suo ruolo di madre e moglie, e poi il proprio corpo per dare forma alle lettere dell’alfabeto.
La prospettiva analitica informa anche il lavoro di Michele Sambin, ad esempio, uno degli autori italiani più sistematici e prolifici nell’ambito del video di ricerca. Sambin – attivo fin dagli anni Settanta presso la galleria del Cavallino di Venezia, dove Paolo Cardazzo ha pionieristicamente attrezzato un laboratorio di produzione video – proviene da studi di musica elettronica, e le sue peculiari videoperformance sono spesso basate sul ritardo temporale e sull’effetto di eco o di sfocatura che investe, non solo l’immagine, ma appunto anche il sonoro.
Dal 1977 accanto al suoni di carattere musicale, Sambin introduce la parola: prima in forma prevalentemente fonetica, poi pian piano in maniera significante. E’ il caso sia di Il tempo consuma (1979) sia di Autointervista (1980). Ne Il tempo consuma, Sambin esemplifica il progressivo affievolimento di immagine e parola, per il semplice effetto della ripetizione, cioè del consumo materiale del supporto magnetico, sottoposto a un’operazione di videoloop. In Autointervista, invece, i significati sono sottilmente ironici, in particolare nei confronti del sistema dell’arte, rispetto al quale l’autore soffre una certa perifericità, o addirittura invisibilità[1].
E’ chiaro che la forma della videointervista ha molto a che vedere con le pratiche dell’informazione televisiva: si tratti di una vera intervista, con intendo documentario; o di interviste fittizie, come quella di Michele Sambin, appunto, oppure quelle di Danielle Jaeggi. Quest’ultima mima talvolta il format del mezzo busto del telegiornale, raccontando però la propria vita; o ancora in Mon tout premier baisier (1984), un video di una 15ina di minuti, in cui, dopo aver rintracciato l’uomo con cui ha scambiato per la prima volta un bacio, lo intervista fingendosi una giornalista televisiva interessata ai lavori che lui conduce come fisico nucleare, ma quasi subito durante il video, Danielle rivela la propria identità e cerca di capire se anche lui ha conservato un ricordo così vivido e dettagliato di quell’esperienza adolescenziale.
Si tratta di lavori in cui, grazie soprattutto ai discorsi che vengono compiuti, si capovolgono alcune peculiarità del medium televisivo, introducendo elementi fortemente soggettivi e biografici. La voce è si quella della protagonista inquadrata, l’autrice stessa dei video, ma al contempo è spiazzante perché ella si finge qualcosa di diverso da se stessa, si propone come giornalista anche se in realtà sta interpretando se stessa[2].
A riprova del fatto che l’impiego della voce umana, e del dialogo in particolare, nel video preferisce essere scissa dalla corrispondenza naturalistica con l’immagine, modalità che è appannaggio del cinema narrativo o della tv, per lo più, si può concludere questa sorta di scorribanda fra alcuni autori che hanno impiegato in maniera innovativa la parola e la voce nei video di ricerca segnalando Bouchra Khalili una giovane videomaker francomarocchina, autrice di The Speeches series, una trilogia video del 2012-13, di cui il primo capitolo è dedicato al linguaggio, il secondo alla cittadinanza e il terzo al proletariato.
Nel primo video, infatti, l’artista intervista 5 esiliati a Parigi invitandoli a tradurre, memorizzare e ripetere frammenti di famosi discorsi o testi di autori come Malcom X, Aimé Cesaire e Edouard Glissant esponenti del pensiero sulla creolizzazione e sulla negritudine. Già la scelta di questi autori è indicativa delle tematiche affrontate nella trilogia. Dal punto di vista formale, il video si segnala per essere costruito con inquadrature fisse di una parte del corpo di chi parla, senza mai inquadrare il volto: il risultato è ancora una volta antinaturalistico. Scelta che aveva già caratterizzato il progetto Straight Stories del 2006-08, dedicato a coloro che vivono nelle vicinanze della Stretto di Gibilterra. Le conversazioni con coloro che vorrebbero attraversare lo stretto, venire in Europa o magari lo hanno appena fatto, raccontano sogni e disillusioni, difficoltà e ambizioni; mentre la camera gira ossessivamente su se stessa, senza mai inquadrare i protagonisti, ma scandagliando un orizzonte d’acqua come se non si riuscisse mai a raggiungere terra. …to be continued…
[1] Cfr. Michele Sambin. Performance tra musica, pittura e video, a cura di S. Lischi e L. Parolo, Padova 2014; su www.michelesambin.com/archivio si possono visionare estratti della maggior parte dei video storici dell’autore.
[2] Cfr. R. Bellour, Fra le immagini. Fotografia, cinema, video, Milano 2007 (ed. orig. Paris, 2002).
immagini (cover 1) Michele-Sambin, «Il-tempo-consuma», 2011 frame (2) Bouchra Khalili, «The Speeches series», 2012-13 (3) Bouchra Khalili, «Straight Stories», 2006-08