Alla Z2o Sara Zanin Gallery è in mostra, fino al 23 giugno 2023, un’esposizione particolarmente weird, immersa in un’atmosfera positiva e giocosa ma che nasconde questioni campali su cui dovremmo interrogarci. È un’esposizione un po’ straniante, un po’ tribale, le cui sculture sono fatte quasi interamente di calcestruzzo ma ci parlano di un ambientalismo puro, trattato, esso stesso, in termini fiabeschi che si drammatizzano stanza dopo stanza, di una drammaticità a-tragica, una drammaticità originaria, una di quelle che non hanno bisogno di alcuna sovrastruttura culturale per essere comprese, perché sono essenziali, come le nuvole, le montagne, la vegetazione. La mostra si intitola «Harvest and Survive», ed è una personale di Anna Hulačová, curata da Denisa Václavová.
Le due donne provenienti dalla Repubblica Ceca, imbastiscono, nelle tre sale della galleria, un racconto primigenio e archetipico fortemente fondato sulla cultura popolare della loro nazione, intrisa di miti e leggende, di creature antropomorfe e di fili vivaci che legano la vita quotidiana a quella naturale e astrale. L’immaginario di cui si serve l’artista è, però, anche legato alla contemporaneità, per simboli e sfumature, e proprio questi simboli (il concetto di “astronauta”) e queste sfumature (l’utilizzo del calcestruzzo) si trasformano, nella rarefatta messa in mostra, nel punctum, cioè in ciò che ci coinvolge, ciò che agisce su di noi e sulle nostre essenze, travalicando la cultura ceca per trasformarsi in espediente affascinante della cultura assoluta.
Entrando nel merito delle sculture esposte, nella prima sala, ne troviamo due: la prima ci dà il benvenuto, è una falena allegra, con una stravagante e bambinesca faccina, la seconda è una sorta di specchio magico di calcestruzzo senza tempo, un po’ nel passato e un po’ nel futuro. La rappresentazione, in quest’opera che rasenta il bassorilievo è criptica, sono presenti numerosi elementi naturali ma la loro rappresentazione evidenzia un qualcos’altro, un qualcosa in più da ricercare nel riflesso del calcestruzzo, nella forma futuristica del manufatto, nella sua grafia.
Il weird della prima sala si ripete nella seconda, ma questa volta attraverso la figura umana, o ad essere più precisi, una figura umana più arrotondata, per certi versi più docile, quasi un cartoon in calcestruzzo. Questa figura, sola, al centro del vuoto del white cube, è un astronauta, con in mano delle piante e, fuse nella tuta, metafore simpatiche, attrattive, legate all’archetipo della spiga di grano. Sembra stia cercando dell’acqua, o forse del polline, è curioso. All’assoluto grigio della prima sala si aggiunge il rosa e il nero degli elementi barocchi in ceramica smaltata, opposti e complementari all’opacità dell’essenziale calcestruzzo.
Infine, nella terza sala, eccoci immersi in un gruppo di omini un po’ alieni, un po’ minimali, un po’ cartooneschi. Pur essendo un gruppo di sculture, l’effetto spaziale ricalca quello della sala dell’astronauta, con il suo horror pleni. Le sculture, come una sorta di evoluzione, di crescita radicale, adesso presentano gli elementi in ceramica all’interno del proprio corpo e non più nella tuta spaziale. I loro volti sono concavi, perdendo inquietantemente la propria identità, ma trasformandosi in gioiosi esseri celebranti, creature sulla linea di confine tra Natura e Cultura, che sfiorano la mitologia, mostrando allo stesso tempo il baratro dell’umanità e la soluzione per far si che esso scompaia: quel contatto naturale e spensierato, estremamente osmotico, che l’uomo dovrebbe avere con se stesso, e quindi evidentemente con il naturale della sua esistenza.
Come leggiamo nel testo critico: «Le figure senza volto di Anna Hulačová perdono il loro posto nel mondo originale, e quindi la loro identità. Tuttavia, esse sembrano determinate a trovare nuovi e diversi mondi a cui appartenere. Non c’è da stupirsi che il loro aspetto ci ricordi quello dell’uomo medievale, il cui bagaglio spirituale fatto di piante, montagne, foreste e cieli aperti è stato sostituito da edifici sacri come punti di partenza per comprendere noi stessi nel mezzo dell’universo. Il paesaggio è stato spinto ai margini dell’attività, non fa più parte di noi, è un oggetto di potere.»
Ognuno di noi, in quanto parte dell’evoluzione sociale di millenni di Storia, in qualche modo, ha perso quel posto nel mondo originale, e quindi per forza di cose parte della sua identità. Ritrovarla, e quindi «cercare nuovi e diversi mondi a cui appartenere» significa diventare creature seminatrici come quelle esposte da Hulačová, forse attraverso un addestramento psicofisico.
La mostra può essere definita una boccata d’aria, una mano protesa all’aiuto, l’ipotesi di un mondo migliore, nella novità di un passato che diviene futuro. Gli elementi gioiosi e giocosi cozzano con una condizione umana cupa eppure speranzosa che si intravede ma che all’esposizione interessa poco, restando fissa sulla luce, sulla speranza, sulla vita naturale che sembra appartenere al passato ma che è senza tempo.
Anna Hulačová. Harvest and Survive, a cura di Denisa Václavová, Galleria Sara Zanin, Roma, 23.03 – 23.06.2023
Immagini (cover 1) Anna Hulačová, «Harvest and Survive», panoramica d’installazione, ph. Sebastiano Lucian (2 -3) Anna Hulačová, «Harvest and Survive, Celebrant of the Harvest 4», 2023, calcestruzzo e ceramica smaltata, ph. Sebastiano Luciano (4) Anna Hulačová, «Harvest and Survive, Agro-Kosmo», 2023, calcestruzzo e ceramica smaltata, ph. Sebastiano Luciano
Anna Hulačová. Harvest and Survive, a cura di Denisa Václavová, Galleria Sara Zanin, Roma, 23.03 – 23.06.2023