Arshake ha il piacere di rilanciare, tradotta anche in italiano e divisa in due parti, l’intervista del collettivo recto/verso a Gregory Chatonsky, artista concettuale franco/canadese da sempre interessato ad esplorare la relazione tra tecnologia e affettività, co-fondatore – agli albori di internet – del collettivo online Incident.net.
recto/verso: Tu che sei pioniere della net art, come potresti definire questa forma d’arte? In che modo distingui una persona che crea arte on-line da una che semplicemente fa cose on-line? Penso che Capture possa seguire perfettamente il cammino di questa riflessione…
Gregory Chatonsky: È complicato riassumere tutta la storia della net art. Ha dato origine a molti dibattiti e a varie strategie. Quello che ho notato è che l’obiettivo di alcuni speculatori è stato quello di inventarne la storia e storicizzare sé stessi allo stesso tempo. Il passaggio quasi immediato tra contemporaneità e storia sembra caratterizzare la nostra era: siamo consapevoli che tutto andrà perso in poco tempo e che l’obsolescenza immediata sta avendo una notevole influenza sui nostri dispositivi, quindi sentiamo la necessità di creare discorsi da seguire in un’altra temporalità. Perciò le radici della nozione di pioniere, utilizzata di frequente, si trovano nell’immaginazione dell’occidente americano, del selvaggio West della Silicon Valley. Nel momento in cui la net.art classica dichiara la morte della netart, si fanno avanti nuove modalità per impossessarsi di un settore, che vanno oltre una falsa lungimiranza: se è morta, siamo simultaneamente i primi e gli ultimi. L’atto di certificare la morte è anche una dichiarazione di nascita. Credo che sia giunto il momento di creare una connessione decisiva e analizzare questo processo di storicizzazione da una certa distanza, come se fosse una vera e propria strategia di conquista, o capture, artistica. Sfortunatamente alcuni storici d’arte lo hanno portato alle sue origini. Per quanto riguarda la distinzione tra un’arte che si rivolge alla rete come mezzo e un’arte diversa, che la considera in modo strettamente strumentale, io vedo una sorta di avatar della modernità greenbergiana, in cui la sovranità dell’opera è identificata con il processo che prevede la concessione di un numero maggiore di poteri a tale strumento. Quello che più mi interessa è il modo in cui la net art abbia riacceso le discussioni del passato e sia diventata per quasi vent’anni un elemento portante di un atteggiamento modernista che ha visto lo sviluppo di coding, glitch, GIF e via dicendo. Il web per il web, l’arte per l’arte, il denaro per il denaro, tutti questi autoriferimenti circolano gli uni sugli altri. Io invece sono stato stimolato da un’altra intuizione, che si basa sul modo in cui la stessa esistenza sembra intrecciarsi con le tecnologie della rete. L’oggetto della mia ricerca artistica è quella zona grigia che si trova tra vita, corpo, emozioni e il web. Può sembrare ovvio oggigiorno, in cui ci troviamo costantemente in connessione, ma nel 1994, l’anno in cui iniziai a fare netart con Incident, queste teorie non erano così chiare. Ero spinto dai forum, dai meeting, dai testi e dai nuovi tipi di immagine. C’era qualcosa che mi tormentava. Avevo la sensazione che stavamo per fare la storia. All’epoca ero molto colpito da Histoire(s) du cinéma di Godard; pensavo che il cinema rappresentasse la storia del 1900 e il web probabilmente quella del ventunesimo secolo, e che quindi bisognava raccontarla e immaginarla. Raccontare questa storia significava creare un’opera.
Fai parte di una generazione nata in un’epoca in cui Internet ancora non esisteva; come l’hai scoperto e in che modo è cambiato il tuo rapporto con questa tecnologia che è mutata così tanto con il passare del tempo?
Abbiamo l’abitudine di considerare il web come un elemento indipendente di un enorme mondo telematico e pensiamo che la rete inizialmente sia stata la linea di confine tra il passato e il futuro, giustificando l’esistenza dei nativi digitali. Con l’introduzione del Minitel nel 1980, la posizione della Francia ha assunto un ruolo speciale. Ovviamente la rete è qualcosa di diverso, ma ha comunque dei punti in comune con il Minitel: tempi di attesa, navigazione, l’importanza del testo, la socialità remota e via dicendo. Per quanto mi ricordo, da quando ho avuto accesso alla rete, la mia psicologia, il mio corpo e i miei desideri sono cresciuti con lei. Internet è stata la continuazione logica del Minitel e della mia esperienza del BBS su Amiga, un senso di comunità senza una comunità. La prima volta che sono entrato in rete è stato nel 1994. Stavo lavorando per la rivista Traverses del Centro Pompidou, che aveva una connessione grazie a IRCAM. Era raro e costoso avere Internet a casa, quindi, quando potevo, trascorrevo ore a cercare in rete e rimasi subito affascinato dalle stranezze che vi trovavo. Non c’erano molti siti, anche se erano già presenti vari testi ancora non pubblicati altrove. È difficile immaginare e tornare alla realtà di allora. Alcuni libri erano rari e anche alcuni tipi di musica; non circolava niente come adesso: il sommerso non era una semplice manovra commerciale, ma un tipo di diffusione. Presto ebbi la sensazione che stava accadendo qualcosa nel mondo, che stava nascendo una nuova cultura, una nuova emozione, una nuova storia. Ci sono stati molti periodi di evoluzione e anche molte interruzioni nella mia relazione con la rete. È stato difficile capire tutto quanto, e posso solo seguire un filo logico, definendo Internet come luogo di osservazione. Vedo i segnali e un possibile destino per la nostra civiltà. Non ho mai avuto la sensazione di dominare, creare o hackerare Internet in qualità di artista. Ho sempre avuto l’impressione di essere creato da lui, di doverci avere a che fare in un modo o nell’altro, di dovermici adattare. Non che le innovazioni tecnologiche siano qualcosa di importante di per sé, ma piuttosto l’uso e il modo in cui le persone vivono il web e come la rete si stia intensificando giorno dopo giorno ci spacca. Mi ha sempre affascinato la comunità anonima in cui possiamo navigare guardando le varie foto o i contenuti di testo di vite diverse. A volte provo a seguire il profilo di qualcuno che non conosco, trovo il suo indirizzo, lo cerco su Google Streetview e mi immagino come dev’essere vivere lì. Mi ricordo ancora qualcosa del mondo passato, non immediatamente precedente l’arrivo di Internet, ma prima della globalizzazione (anche se praticamente sono la stessa cosa). È sempre più difficile pensare che quel mondo sia sparito.
Nel tuo testo Esthétique des Flux proponi una lettura contemporanea sull’analisi storica dei «flussi», fondamentali per la base pratica e ideologica della civiltà occidentale. Puoi definirci il concetto di flusso nel contesto storico?
È da tanto che sono interessato al concetto di flusso, che è stato proprio l’argomento della mia tesi di dottorato. Spesso questa parola si usa per descrivere l’esperienza sul web, ma viene impiegata anche per esprimere altre cose: flussi finanziari e migratori, flussi urbani ed energetici, flussi naturali ed ecologici, flussi biologici e via dicendo. Oltre a tutti questi diversi campi di applicazione, il flusso indica che qualcosa può avere la meglio su di noi e travolgerci. È qualcosa di così grande, di così complesso ed enorme da cui è estremamente difficile proteggerci. Ovunque, e in nessun luogo allo stesso tempo, ci supera come gli Hyperobjects di Timothy Morton. Ho provato a creare una storicità dei flussi, partendo dall’ipotesi che siano essenziali per la base materiale delle città. Per raggruppare gli individui in un unico spazio devi entrare e uscire dai flussi. Rispondono quindi a problemi concreti di tipo idrologico. Allo stesso tempo sono carichi di pesanti significati nella narrativa di base cosmologica. Poi sono ambivalenti: ciò che può portare la morte da inondazione è anche la fonte di vita. Questa ambivalenza si trova al centro della relazione tra la civiltà egiziana e le inondazioni del Nilo. Nel tempo ho scoperto che i flussi mettono in gioco tre aree fondamentali: la natura, il corpo e la tecnica. In base al periodo, i flussi entrano in questi campi in proporzioni differenti, definendo il Zeitgeist. Physis per i greci, il corpo come riferimento al sanguinamento per l’era classica e la tecnica per l’era industriale. La mia ipotesi è che il web rappresenta un punto di svolta nell’articolare la natura, il corpo e la tecnica in nuove modalità. Forse è il prodotto del nostro punto di vista, che ci mostra la svolta della nostra contemporaneità; elementi oltremodo inquietanti. Le opere stesse potrebbero essere considerate dei tentativi svolti nel corso della storia, pensati per dare una forma al flusso, per rispondere alla sfida impossibile di fissare il movimento mantenendone la fluidità. È come se l’ambivalenza storica dei flussi, fonte di vita e di morte, avesse incontrato quest’altra ambivalenza estetica e materiale. Non posso fare una lista di tutte le conseguenze dei flussi, ma ho provato comunque a sviluppare un sistema storico, economico e ontologico che possa condurre a un’estetica tra affluenza, afflusso e riflusso, che credo consenta di trovare un equilibrio tra la comprensione di qualche retaggio nuovo e storico.
Nello stesso articolo parli dell’informatica come se fosse un insieme tra natura, corpo e tecnica racchiuso in un’unica «scatola nera». All’interno di essa l’estetica dei flussi si manifesta e crea allo stesso tempo una certa distanza, un eccesso che le macchine ci aiutano a percepire. In che modo i flussi vanno oltre l’essere umano, portandoci più vicino all’estetica?
Se le macchine producono un sorpasso e un avvicinamento all’estetica, che può sembrare contraddittorio, è perché cambiano le condizioni di percezione della realtà. Per capirlo meglio dobbiamo tornare indietro alla cibernetica iniziale e ai dibattiti speculativi tra Wiener, Newmann, Shannon e Turing. Per trasmettere un segnale su lunghe distanze, passiamo dalla comprensione fisica alla concezione del segnale come codice. Potrebbe sembrare un qualcosa di astratto, ma è proprio questo che crea la consolidazione estesa, non perché la realtà venga inizialmente codificata, ma perché possa essere codificata: tutto viene considerato come una sequenza binaria. È il progetto finale di Matrix. La conseguenza più importante di questa codificazione è la capacità di trasformare la realtà. L’invenzione-scoperta del codice genetico, contemporaneo all’arrivo dell’informatica, ci aiuta a ricodificare l’essere umano, ovvero a trasformare le condizioni dello stesso osservatore. La scienza non sarà più percezione, ideale o differita, di tutto quello che esiste in modo indipendente da ciò, ma la capacità tecnologica di trasformarlo. Non cerchiamo più il physis; ora vogliamo sapere cosa può essere cambiato. La speculazione tecnologica agisce sul mondo intero, producendone la globalizzazione e il sui divenire. Il computer è una «scatola nera», per usare le parole di Minsky, che sogna di essere isolata e sovrana dei centri di dati. Nei suoi circuiti si trovano le condizioni dell’esperienza: la ripetizione del calcolo è a dir poco perfetta, sprovvista dei fallimenti collegati alla tecnica. Da lì, la «scatola nera» ha una duplice caratteristica: ci divide con la sua sovranità e ci avvicina gli uni con gli altri. Ed è proprio questa ambivalenza strutturale di flussi che ci diverte così tanto ogni volta che vediamo una persona con una cuffia per la realtà virtuale tipo Oculus Rift entrare e uscire dal mondo che la circonda. Il web collega la “scatola nera” al resto del pianeta; è un mediatore. Ma non solo: è la globalizzazione di un mondo che sta diventando tale, ma che non lo è ancora. Ma è la natura che rimane colpita da questo processo: la rete attraversa mari e territori, i centri di dati hanno bisogno di molta energia e via dicendo. I corpi sono turbati, connessi a livello remoto, e desiderano una sorta di riconciliazione al centro di questa separazione. La rete mobilizza i nostri corpi. Infine troviamo anche quelle tecnologie che tessono materialmente e ideologicamente questa rete. La “scatola nera” vede tutto come una corrente binaria, e questa semplificazione può integrare altre correnti, sottoposte a flussi più grandi, 0 e 1. Sono davvero felice di vedere questa frenesia della rete che va oltre il quadro tecnologico e politico e che ha finalmente un certo effetto riflessivo sul mondo dell’arte, dopo anni trascorsi nella più totale cecità. Molti stanno iniziando a realizzare che la rete riconfigura il modo di immaginare, di produrre, di distribuire, di documentare e di commerciare le opere d’arte. Questo processo è diventato eccessivo anche per i nostri tempi, poiché sopravvalutiamo l’importanza della rete e la separazione di un contesto ontologico ancora più grande.
… to be continued…
L’intervista (titolo orig. Aesthétique des Flux. Intervista con Gregory Chatonsky) è originariamente comparsa sulla piattaforma di recto/verso come parte del #4 numero di una rivista online dedicata a Online/Offline, a seguire una conferenza dedicata al tema organizzata ad Atene daHD Kepler, il 3 137, e Enterprise Projects nell’aprile 2016. recto/verso è un collettivo curatoriale interessato ad indagare la natura delle immagini nella società contemporanea.