Arshake ha il piacere di pubblicare la seconda parte dell’intervista del collettivo recto/verso a Gregory Chatonsky, artista concettuale franco/canadese da sempre interessato ad esplorare la relazione tra tecnologia e affettività, co-fondatore – agli albori di internet – del collettivo online Incident.net.
recto/verso: Consideri il flusso come fonte di critica della metafisica e di un altro tipo di ontologia che chiami “a-human”. Il tuo progetto Télofossiles è una sorta di archeologia del futuro; potresti descrivere questo quadro? Che connessione esiste tra questo futuro immaginario e le recenti teorie di Antropocene?
Gregory Chatonsky: Télofossiles è stato creato in collaborazione con Dominique Sirois, nel Museo di arte contemporanea a Taipei nel 2013, e in una galleria a Pechino, Caochangdi, nel 2015. È iniziato tutto nel 2009, con la creazione della parola Télofossile e di un’immagine: un mondo minerale in cui è sparito l’essere umano e non sono rimasti altro che resti archeologici. Un altro tipo di intelligenza (organica? Meccanica? Non lo sappiamo) scopre questi resti e prova a ricreare ciò che siamo stati. Anche se questo tipo di conoscenza è incompleta, riesce a dare un’idea di quello che eravamo. Speculare sulla scomparsa dell’uomo è la base ideale per un’attenta riflessione sulla nostra contemporaneità e sullo stato della nostra fanatica produzione. Cosa facciamo quando creiamo milioni di oggetti identici? Cosa desideriamo realmente quando salviamo sempre più dati esistenziali spesso di minore interesse? Perché, anche di fronte al collasso delle condizioni di sopravvivenza, produciamo sempre di più, riempiendo un mondo che presto verrà svuotato dalla nostra presenza? Anticipare la nostra scomparsa equivale ad aprire una speculazione estetica paradossale, poiché è immaginando la nostra assenza che possiamo cogliere appieno le condizioni del nostro presente. È nel momento in cui gli individui prendono conoscenza della certezza della loro morte che iniziano a difendere la propria vita, e questo succede a tutti: accettano la loro scomparsa (poiché le specie compaiono e scompaiono) come valorizzazione della vita. È stato durante la ricerca del termine Télofossile che ho scoperto Après la finitude (2006) di Quentin Meillassoux, e il suo antonimo archéfossile. So che il «nuovo» materialismo, realismo e accelerazionismo sono concetti alla moda, usati spesso in modo eccessivo nell’arte contemporanea, ma è stato comunque divertente per me vedere il modo in cui alcune delle mie intuizioni artistiche fossero presenti negli scritti di Meillassoux, a posteriori. Le teorie dell’Antropocene sono molteplici. Spesso sono suddivise in due parti: la prima è quella scientifica e consiste nel descrivere obiettivamente l’influenza degli umani sull’ambiente. La seconda è più ideologica, e può essere definita come una denuncia alla cattiva influenza degli umani sulla terra, secondo la figura cristiana del peccato e del male, o la volontà di salvare l’uomo da se stesso, come logica ambivalente del pharmakon, dato che siamo entrambi il veleno e la cura. Devo confessare che mi sento più vicino alle teorie del «a-human», che vedono la terra come un elemento autonomo e riconoscono che le specie organiche scompariranno. Nell’accanito desiderio di immortalità degli esseri umani, denominato spesso con l’espressione «transumanesimo», esistono strategie che potrebbero produrre l’effetto contrario di quello che in realtà credono che avvenga.
Quale ruolo gioca la tecnologia in uno scenario, come questo, che prevede la fine del mondo? In che modo la tecnologia potrebbe divenire una prova dell’esistenza della storia umana?
Dopo Télofossiles, io e Dominique, in collaborazione con Jussi Parrika, abbiamo elaborato il progetto Extinct memories a Québec e a Bruxelles, in cui ci siamo focalizzati soprattutto sulla questione dell’archeologia tecnologica come memoria della nostra specie. Secondo una logica prometeica, spesso le tecnologie erano considerate come possibili cause della distruzione dell’uomo, ma il loro ruolo potrebbe diventare anche un ricordo «a-human», come se avessimo creato le condizioni del nostro eccesso. Difatti ogni oggetto tecnologico porta con sé le tracce di persone scomparse: il designer, l’artigiano, l’impiegato, l’utente e via dicendo. Su tali oggetti vediamo lo strato delle dita e i segni dell’uso e osserviamo il passo del tempo. Quindi gli oggetti intorno a noi possono essere considerati delle vere e proprie tombe. Horizon (2016) mostra come il web non sia un elemento immateriale, ma una forte infrastruttura che sogna la propria immaterialità e immunità a costi molto elevati. Tutto ciò solleva anche la questione relativa alla conservazione del web e all’archeologia, oltre al modo in cui la memoria collettiva creata e comunicata attraverso Internet sia selezionata, preservata e trasmessa dalle aziende private. Questo argomento viene affrontato anche in Extinct Memories, in cui il personaggio principale Urs Hölzle è il capo delle infrastrutture di Google. Possiamo organizzare e preservare questo retaggio oggi? Cosa succederebbe se questo retaggio venisse creato in assenza degli esseri umani? E se fosse destinato alle macchine? Cosa succederebbe se tutte queste esistenze anonime consentissero alle macchine di creare sosia abbastanza uguali per essere credibili e sufficientemente differenti per essere unici?
Incident.net è una piattaforma artistica situata in Francia, Canada, Senegal e presente on-line dal 1994, che riunisce i concetti di caso, bug, imprevedibilità e rete. Come è stata strutturata e sviluppata tra questi diversi creatori e partecipanti?
Incident è stato uno dei primi «collettivi» di netart. Ho deciso di mettere la parola «collettivi» tra virgolette perché questo termine sembra essere problematico. Io senza dubbio preferisco la parola «piattaforma». L’idea iniziale era quella di unire pratiche artistiche e discorsive per renderle indifferenti, poiché la separazione tra teoria e pratica sembrava alquanto obsoleta. Quindi fu una speculazione sulla rete e all’interno di essa. Abbiamo riunito alcuni filosofi di Paris I e qualche artista delle Belle Arti di Parigi. Poco dopo iniziammo a interessarci alla testualità, alla narrazione, alla variabilità. Credo che quello che ancora ci unisce sia una sorta di affetto verso la rete e un modo particolare di lavorare. Non abbiamo pubblicato nessun manifesto, ma prodotto solo brevi testi che poi ci siamo scambiati. A volte discutiamo sui nostri progetti artistici, per far partecipare anche gli altri alla nostra fase di progettazione. È un modo per essere fluidi e flessibili. E anche molto emozionali. Se guardo al passato, credo di aver tracciato un cammino particolare nel mondo della netart, che non prevede la ricerca dell’autonomia del mezzo, nella versione più modernista della net.art, né è immersivo e sensoriale come l’arte digitale, ma interessato a piccole storie, a mondi che potrebbero nascere.
In un testo che abbiamo pubblicato di recente per Hd Kepler, ci siamo posti delle domande sulla questione dell’originalità nella società contemporanea. Ecco qualcosa che vogliamo chiedere a te: siamo indifferenti alla nozione di autenticità? Se l’arte digitale è un sistema aperto, modificabile o attaccabile, potremmo considerare l’«apertura» come parte della definizione di arte digitale? Siamo indifferenti alla questione legata all’originalità delle opere digitali solo perché è difficile calcolare il loro valore economico?
L’originalità è una questione complessa; sembra qualcosa di ovvio nell’arte, ma è un concetto storico. Le arti antiche iniziarono il loro cammino copiando e passando da una civiltà all’altra. Questo mix creò qualcosa di nuovo tra i greci e i romani. Potremmo definirlo “versione”, una “forma”, che poi è diventata un’altra “forma”, un flusso storico e culturale. La comparsa dell’originalità riguarda meno la sostanza rispetto alla conoscenza della soggettività presente nella recente figura dell’artista: se l’artista è originale, allora lo sarà anche l’oggetto. L’originalità riguarda l’origine. Con il digitale torniamo a una sorta di materialità senza origine, poiché questa le è già stata conferita. Credo che per definire la nostra sensibilità verso gli oggetti digitali, dovremmo considerarne la materialità non in una forma specifica, né nel codice che si riaggiorna, ma nel flusso, che può includere una variazione e legarsi in modo organico a quello della nostra coscienza. Per quanto riguarda la relazione tra originalità e il valore di un’opera d’arte, dovremmo effettuare una sorta di destrutturazione, considerando che il valore non è inerente all’oggetto ma alla relazione istituzionale. Il valore proviene dall’esterno e lo porta fuori, come un vero e proprio sistema idrologico. In poche parole, con il neomaterialismo digitale stiamo tornando alla normalità. Capture, una rock band immaginaria che ho fondato nel 2008 con Olivier Alary, mette in questione lo stato dell’originalità nella società contemporanea. Rappresenta una “soluzione” ironica alla crisi dei settori culturali. Difatti già da diversi anni il settore della musica (oltre a quello del cinema e della stampa) inscena la propria scomparsa, perché gli utenti on-line scaricano illegalmente file mp3. Ma Capture è così produttiva che il suo lavoro può essere utilizzato da tutti. Produce musica, testi, immagini, video e prodotti nuovi ogni ora. Ogni nuovo file viene tradotto automaticamente in altri formati. Appena un mp3 è scaricato, viene cancellato dal server e il “consumatore” ne diventa l’unico possibile diffusore. Cancellando il bene di consumo mediante tecnologie generative, Capture ribalta l’ideologia consumista e la relazione tra il desiderio e l’oggetto. Grazie alla sua incredibile produttività, Capture va oltre l’opportunità di essere ascoltata.
Per quanto riguarda la pratica di appropriazione e reinterpretazione di opere d’arte “analoghe” da un mezzo digitale, qual è stato esattamente il processo celato dietro la serie It’s not really you?
It’s not really you è una rete artificiale neurale che ho alimentato con migliaia di immagini ricevute automaticamente dal web. Questa rete ha appreso le forme e gli stili di questi dipinti umani per generare nuove immagini. Somigliano alle immagini originali, ma non sono identiche a nessuna di esse. Uguali ma diverse, l’intelligenza artificiale ne ha creato una versione diversa. L’operatività di queste reti neurali è interessante perché esse sono schizofreniche. Una parte del software genera immagini e l’altra controlla se il risultato è “realistico”. È come se una parte dell’uomo fosse stata affidata a una macchina divisa in due e il test di Turing venisse svolto al centro della “scatola nera”. Queste immagini vengono poi stampate con un processo 2.5D, che fornisce stampe in rilievo per simulare alla perfezione questa somiglianza da “valle perturbante”. Internet forse non è un mezzo di comunicazione interpersonale, come si pensava spesso. Forse con la rete dobbiamo collegare due serie eterogenee, antropologiche e meccaniche. Il web 2.0 ha delegato agli utenti la creazione di dati, utilizzando la macchina per registrare i nostri comportamenti e i nostri ricordi in modo implicito o esplicito. Queste registrazioni permettono di formare grandi insiemi di dati, che le macchine possono elaborare per imparare da noi e riprodurre i nostri dati. Questa convergenza tra neuroni artificiali e big data la chiamo neural.net. Le macchine producono una versione, una somiglianza, un qualcosa di nuovo. Io credo che sia proprio questa piccola differenza tra queste due serie ad aver generato il mio lavoro negli ultimi anni.