La mostra di Marco Mendeni – classe 1979, artista che utilizza new media e videogames per le sue opere – qualche tempo fa alla galleria Label 201 – «My time machine is burning. (Is there a life after capitalism?)», a cura di Elena Giulia Abbiatici – è stata sorprendente.
Nel senso etimologico del termine: ha creato un sentimento di sorpresa. Mi spiego meglio: entrando in galleria non si vedono video, computer, dispositivi elettronici. Niente di tutto ciò. Eppure la presenza delle nuove tecnologie è tangibile. Ecco la prima sorpresa: Mendeni riesce a parlare della «macchina tecnologica» con elementi antichi: tavole ad olio e lastre di marmo.
I suoi dipinti sono attrattivi; mi avvicino perché devo riuscire a capire di cosa sono fatti, li voglio toccare con il mio sguardo e loro si fanno avvicinare e si fanno toccare. Nel momento dell’incontro dello sguardo con la superficie della tavola dipinta mi rendo conto che c’è un corto circuito temporale: il disegno è perfetto, troppo perfetto per la mano dell’uomo, sembra quasi stampato eppure l’olio, la materia della pittura rinascimentale, mi rimanda al corpo, un corpo che è rimasto segnato dall’incontro con la macchina: bruciato. La bruciatura è vivida sulla tavola ma è già successo. Mi ritrovo ad essere testimone di un passaggio che è già avvenuto ma davanti ai miei occhi è nel suo compiersi: dal corpo alla macchina.
Di chi è il mondo che si apre nelle tavole di Mendeni? Della macchina o del corpo segnato?
Ancora con queste domande nella testa mi rendo conto che l’artista mi offre un appiglio per la sopravvivenza: una epigrafe. Il marmo è la materia che attraversa il tempo e l’incisione è uno dei primi segni che l’uomo ha lasciato per testimoniare il suo essere al mondo. Ma ecco la seconda sorpresa: è solo un link! Non è un simbolo immediatamente intellegibile: non un nome, una data, un segno del passaggio sulla terra di un uomo. Mendeni mi ha fregato di nuovo. A che mi serve quella lapide se non la capisco? O, in maniera ancora più sottile, riconosco che è un link ma senza una macchina non mi rappresenta niente, non riesco a leggerlo. Mi domando se quelle lettere e quei simboli in fila facciano davvero parte ancora del linguaggio dell’uomo. Immediatamente riconoscibili ma assolutamente chiusi in un processo linguistico che ha fatto fuori il corpo, l’uomo, la comunicazione immediata: non c’è passaggio di sapere e di conoscenza, non c’è storia. Inutile…
Pensieroso, mi sento cacciato via dal mondo, dai mondi che le macchine producono e che non solo non mi appartengono ma che non riesco più neanche a decifrare. Eppure – e qui sta l’ennesima sorpresa – mi sento anche libero: ripenso a Günther Anders e al suo “Uomo senza mondo” :
<< L’espressione “uomo senza mondo” significa dunque che (in quanto riconosciamo fermamente nel capitalismo la naturale realizzazione della libertà, priva di qualunque alternativa) restiamo liberi di decidere per quali mondi via via offertici e ordinatici parteggiare >>.
Riprendo l’uscita, sentendo di essere stato stimolato. In fondo è ciò che l’arte dovrebbe fare sempre.
Questa riflessione di Angelo di Bello si riferisce alla mostra: «Marco Mendeni. My Time Machine is Burning (Is there a Life after Capitalism?)», Label 201, Roma, 06 – 26.05.2017. Il lavoro di Marco Mendeni è stato recentemente presentato a Milano con la mostra «Hype», a cura di Matteo Bittanti, Amy D Arte Spazio, Milano
Immagini (tutte) «Marco Mendeni. My Time Machine is Burning (Is there a Life after Capitalism?)», Label 201, Roma, installation view, photo: Luisa Galdo