«Perhaps my best years are gone. When there was a change of happines. But I wouldn’t want them back. Not with the fire in me now. No, I wouldn’t want them back»[1].
Samuel Beckett
«Nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più. (Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato: e un uomo anziano che abbia un tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se stesso giovane, e dunque non può più avere i bei rimpianti di una volta)»[2]. Partendo da questa apocalittica considerazione di Pier Paolo Pasolini (originale critica alla società dello sviluppo neoedonistico e metafora d’un – sentito e allarmante – vuoto di potere in Italia), Elena Bellantoni apre una nuova pagina del proprio diario creativo per dar vita a un discorso circolare sugli ultimi 40anni di storia che hanno trasformato la formosissima donna leopardiana in un territorio calpestato dal qualunquismo, in una regione maltrattata dall’incuria, in un ambiente politico senza contenuto. Quasi a ritrovare le lucciole (le speranze) perdute nel maelström dell’indifferenza, Bellantoni traccia ora un percorso che orienta lo spettatore in un processo dialettico dove si incontrano continuamente presente e passato, dove la conservazione della memoria collettiva si fonde con il suo itinerario individuale e dove l’oscillazione metafisica delle cose, come il congedo della sera dal giorno (Kierkegaard), evoca le piccole luci intermittenti della notte.
Nata dalla rilettura dello scritto corsaro di Pasolini pubblicato il 1° febbraio 1975 («io sono nata proprio nel 1975»)[3], Lucciole, primo lavoro che apre questo nuovo programma espositivo, è un dispositivo che sovrappone la storia personale dell’artista a quella politica del Belpaese per invitare lo spettatore a riflettere, a ricordare. «Convinta che il percorso di ognuno di noi è condizionato dai fatti di natura storica e politica che dall’esterno ci riguardano, ho deciso di incidere su 4 vinili 40 pezzi di audio legati a fatti e avvenimenti dal 1975 al oggi» suggerisce l’artista.
Mediante una selezione di vicende strappate a vecchi telegiornali – selezione che segue «il fil rouge della mia memoria» – i quattro vinili propongono, infatti, uno spaccato epocale al quale si interseca quello intimo e passionale dell’artista (le copertine dei vinili sono delle serigrafie che raccontano visivamente la storia personale dell’artista) per dar luogo a una narrazione poetica e nostalgica dove le lucciole sono sparite e quello che resta è «la storia che ci attraversa e ci ha attraversato»[4].
Con Al-pino resistente, installazione circolare elaborata con otto ventilatori neri e una conifera sempreverde (Pseudosuga menziensii, più precisamente, detta anche Pino dell’Oregon) utilizzata per favorire una delle più diffuse usanze natalizie, Elena Bellantoni sposta l’attenzione, poi, non solo sulla forza di un albero che resiste al consueto maltrattamento dicembrino, ma anche sul concetto di resistenza e sulla figura del partigiano, luminoso sembiante della recente storia italiana la cui carica ideologica – come la forza dell’albero – ha spazzato via il dolore per ritrovare, con una inevitabile lotta armata, la propria indispensabile libertà.
A chiudere il cerchio è Impero Ottomano, performinstallazione che invita lo spettatore a elaborare un gioco di resistenza con l’artista e a riflettere sul concetto di resilienza psicologica e fisica. Metafora di un braccio di ferro tra Occidente e Oriente («una questione totalmente aperta sul tavolo dei nostri giorni» puntualizza Bellantoni)[5] e, contemporaneamente, di uno spartito che chiede continuamente cosa resista alla storia e alla propria esperienza personale, Impero Ottomano è un rapporto tra l’artista e il suo pubblico, uno slittamento bilaterale in cui il pubblico si fa privato e, viceversa, il privato si fa pubblico. L’opera – un tavolo un braccio meccanico indossato dall’artista per potenziare la propria fisicità e una serie di placche in ottone da fissare a parete durante l’opening – invita infatti lo spettatore ad affrontare «una donna con un braccio modificato da un meccanismo (una struttura semplice in legno con molla) che oppone resistenza»[6]. [Durante la prova fisica l’artista pone la medesima domanda (cosa resiste?) con lo scopo di spingere il suo avversario verso una prova psicofisica e invitarlo così a concepire una doppia risposta (le parole sono trascritte a mano sulle placche ovali di ottone lucidato a specchio) per stabilire un contatto con la resilienza che vive tutti i giorni di fronte ai soprusi, ai traumi e ai dolori prodotti dalla società contemporanea].
Il percorso offerto dall’artista con questo nuovo palinsesto estetico pone dunque al centro della riflessione un segmento emotivo (intimo!) che si avvita a un ordine discorsivo di stampo metalinguistico e plurespressivo con lo scopo di costruire una parabola visiva il cui disegno è bussola che orienta lo spettatore tra le storie semplici del quotidiano (e quotidiano è «una parola straordinaria che suggerisce la profondità e la portata del luogo comune» ha detto Don DeLillo), di un discorso in cui la vicenda del singolo contribuisce a plasmare il racconto della specie e, mediante una indispensabile poliglottìa estetica[7], peculiare all’arte d’oggi (e di domani), a edificare ricordi, memorie, cronache d’un diario (di un libro della storia contemporanea?) non ancora concluso. Con un silenzio che bagna la mente Elena Bellantoni traccia infatti un percorso – luminoso e oscuro assieme – che si avvale di metafore e metonimie, di sottintesi e sintesi, per concepire spericolate e coscienti apparizioni dove l’incertezza e la certezza si confondono fino a perdersi in quella aspra conquista che, come ha insegnato Giovanni della Croce, non può non essere un’opera di buio.
[1] S. Beckett, Krapp’s Last Tape, in «Evergreen Review», III, 1957; trad. it., L’ultimo nastro di Krapp, in Teatro, a cura di C. Fruttero, Einaudi, Torino 1968, pp. 201-213. («Forse i miei anni migliori sono finiti. Quando la felicità era forse ancora possibile. Ma non li vorrei indietro. Non col fuoco che sento in me ora. No, non li vorrei indietro»).
[2] P. P. Pasolini, Il vuoto del potere ovvero L’articolo delle lucciole, in «Il Corriere della Sera», 1° febbraio 1975, anche in Id., Scritti corsari. Gli interventi più discussi di un testimone provocatorio, Garzanti, Milano 1975, p. 157.
[3] E. Bellantoni, Concept del progetto, da una mail dell’artista a chi scrive e a L. Zappacosta, con in oggetto Re: Giornata del contemporaneo, ricevuta il 15/09/2015, ore 01:48.
[4] E. Bellantoni, Concept del progetto, cit.
[5] E. Bellantoni, Concept del progetto, cit.
[6] E. Bellantoni, Concept del progetto, cit.
[7] L’espressione è stata coniata dall’autore e depositata all’ufficio brevetti, © Antonello Tolve.
Elena Bellantoni. Lucciole, a cura di Antonello Tolve, Alviani Art Space, Pescara, 10.10 – 21.11.2015 (lo scritto qui pubblicato di Antonello Tolve è il testo che accompagna la mostra)
Immagini (cover 1-2 – 5-6), Elena Bellantoni. Lucciole, performance e installazione, 2015, photo by Manuel Vallescura (3) Elena Bellantoni, Al-pino resistente, 2015 (4) Elena Bellantoni, Millenovencentosettanta lucciole – millenonvecentoottanta lucciole – millenovecentonovanta lucciole – duemila lucciole, 2015.