Valentina Tanni critica d’arte e curatrice da sempre interessata alla relazione tra arte e nuovi media, con un’attenzione particolare per l’Internet Culture. E’ fondatrice di Random Magazine, una delle prime testate interamente dedicate alla net art ( diventata ora una pubblicazione della collana Link Editions), ed è co-fondatrice di Exibart e Artribune, due importanti riviste italiane di arte. Ha curato diverse mostre all’interno di istituzioni e festival. Ha scritto articoli su arte e nuovi media per testate italiane e internazionali e lavora come insegnante e lecturer per università e istituzioni private. Valentina Tanni presenta, in questi giorni, «Ethernal September» la mostra che ha curato presso Aksioma – Institute for Contemporary Art, Ljubliana, Škuc Gallery (Ljubljana) e LINK Center for the Arts of the Information Age (Brescia, Italy). La mostra è uno sguardo importante sullo scenario contemporaneo artistico e culturale, mettendo sullo stesso piano produzioni di artisti riconosciuti con quella di amateurs, portando quindi assieme due realtà che nella dimensione tecnologica sono sempre più interconnesse. La conversazione si è poi estesa a tematiche relative alla new media art e al suo collocarsi nell’ambito del contemporaneo. Osservazioni interessanti sono emerse dalla lunga esperienza di Valentina Tanni il cui interesse l’ha spinta ad occuparsi della cultura Internet sin dagli anni Novanta quando questo settore stava appena prendendo forma.
Elena Giulia Rossi: Per tanti anni hai dedicato la tua ricerca alla cosiddetta «new media art», con particolare attenzione alla cultura Internet nelle sue varie declinazioni. Il tuo interesse è iniziato in un momento in cui queste correnti creative erano del tutto inesplorate e per lo più ignorate, soprattutto in Italia. Quale è la miccia che ha acceso questo tuo interesse e come sono stati recepiti i tuoi studi in un primo momento?
Valentina Tanni: La «miccia» è stato il primo collegamento a Internet. Mi interessava già la sperimentazione artistica che coinvolgeva la tecnologia, un interesse nato soprattutto durante gli anni dell’università grazie ai corsi sulla videoarte e l’arte elettronica tenuti da Silvia Bordini a «La Sapienza di Roma», dove studiavo storia dell’arte. È stato però l’avvento di Internet, e la scoperta della net art, a stimolare la mia ricerca in seguito. Ho iniziato con la tesi di laurea e poi non ho più smesso. Quando ho scritto i primi articoli sull’argomento la ricezione è stata buona, anche se, come dici giustamente, il tema fosse ancora poco conosciuto, e nonostante ci fosse un certo scetticismo iniziale. La curiosità, tuttavia, ha prevalso, e ho ricevuto sempre moltissimi feedback.
Come credi vada inquadrata, oggi, questa tipologia di sperimentazioni artistiche nell’ambito del contemporaneo [artistico e culturale]?
Si tratta di uno dei (tantissimi) modi di fare arte oggi. La tecnologia riveste un ruolo molto pesante all’interno della cultura contemporanea, a tutti i livelli: sociale, scientifico, economico e culturale. È quindi impossibile che l’arte non interagisca con questo universo, discutendolo, sovvertendolo, trasfigurandolo. Possiamo usare, per comodità, tutte le etichette che vogliamo (arte digitale, arte elettronica, new media art etc), ma dobbiamo sempre contestualizzare il lavoro degli artisti, se li riteniamo tali, in un quadro più ampio. Nel quadro della storia millenaria della ricerca artistica.
Data la tua lunga esperienza anche in ambito didattico, quali reazioni riscontri da parte dei giovanissimi quando il dispositivo tecnologico da strumento di comunicazione (per loro ormai assimilato) è analizzato come strumento creativo?
Ottima domanda. La risposta infatti è sorprendente, almeno per me. Mi ha molto colpito scoprire che sono spesso proprio i giovanissimi a mettere pesantemente in discussione l’utilizzo artistico delle nuove tecnologie. Forse da un lato sono ancora influenzati da una visione romantica dell’arte, che vede nell’utilizzo della tecnologia il pericolo di un inquinamento della componente umana e «poetica» dell’opera. D’altro canto, poi, dobbiamo considerare che proprio la loro dimestichezza con il computer, ormai diventato un oggetto di uso quotidiano (quasi un elettrodomestico), spesso li porta ad accettare con più fatica il fatto che possa essere «trasfigurato» e utilizzato per scopi differenti.
In un recente articolo di Angela Vettese, recensione del libro You are here – Art after the Internet (curata da Omar Kholelf) per il «Sole 24ore», si parla della net.art come corrente artistica che a un certo punto ha suscitato un certo interesse ma che non è poi riuscita a raggiungere un pubblico vasto, se non per eccezione di pochi artisti. Come ti senti di commentare questa affermazione?
Da un certo punto di vista è vero. La net art ha attratto molta attenzione tra la fine degli Anni Novanta e l’inizio dei Duemila, in coincidenza con l’hype più generale che si è creato intorno al web stesso. Molti musei hanno cavalcato l’onda, aprendo (e poi chiudendo) dipartimenti appositi e anche acquistando opere per la propria collezione, ma non sempre questo interesse si è rivelato genuino. In tanti casi si è trattato soltanto di una scelta strumentale, un modo per dimostrarsi «up to date» e per attrarre l’attenzione dei media e del pubblico. Bisogna anche considerare il fatto che la net art, come è spesso accaduto nella storia ai movimenti di avanguardia, ha «bruciato» la sua carica dirompente in pochi anni, grazie all’attività, non organizzata e geniale, di un gruppo di personaggi di provenienza molto varia, spesso volontariamente lontani dal sistema dell’arte. Questa caratteristica, insieme al fatto che si parla di opere perlopiù incompatibili con il mercato, ha determinato quello che viene percepito come un calo di interesse. In realtà, la net art, nonostante si sia esaurita come movimento specifico, ha lasciato un’eredità enorme, segnando il modo di approcciare l’arte di un’intera generazione. E, soprattutto, ha preconizzato, indirizzandola, una certa evoluzione della cultura del web: una cultura fatta di interazione, collaborazione, comunità e creatività senza barriere.
Da quale fattore credi dipenda maggiormente la resistenza di alcune istituzioni nel dare pieno riconoscimento a forme sperimentali che ormai il mondo ha istituzionalizzato attraverso la voce di diversi musei prestigiosi, punti di riferimento del sistema dell’arte, tra cui il Guggenheim, il DIA Art Center, il MoMA Museum di New York? In qualche misura credi si possa chiamare a responsabile di questa resistenza la settorializzazione di un genere di sperimentazioni molto vasto riconosciuta e racchiusa in termini che si riferiscono alla specificità del mezzo?
Si, sicuramente l’eccessiva settorializzazione, come accennavo prima, è nociva. Trovo anche che concentrarsi sulla specificità del mezzo sia un approccio datato, un’arma ormai spuntata per la critica d’arte contemporanea. Quel genere di resistenza, comunque, è una risposta che tutte le forme d’arte «sperimentali» hanno ricevuto da parte delle istituzioni nella storia. Certe dinamiche tendono a ripetersi…
Stanno nascendo diverse realtà che operano direttamente online (anche quando associate a una sede fisica), in cui includere il Link Cabinet, spazio del Link Art Center dove parte della tua prossima mostra si disloca. Credi che questa nuova tipologia di spazi operativi nella rete sia destinato a crescere parallelamente a quelli che esistono e che nascono nello spazio fisico, o stiamo assistendo all’inizio di uno stravolgimento del sistema dell’arte, tenendo conto anche dell’impatto della crisi sulla missione dei musei tradizionali?
Credo che gli spazi online siano destinati a crescere, senz’altro. Ma penso che conviveranno sempre con quelli offline. D’altra parte i musei non possono pensare di rispondere alla crisi «ritirandosi» sulla rete. Dovrebbero però imparare – alcuni già lo stanno facendo – a servirsi di entrambe le dimensioni in maniera intelligente, continuativa e complementare. Alcune esperienze si fanno meglio in una stanza, altre nello spazio pubblico, altre ancora su un sito web.
Tutto quanto fin qui affrontato si inquadra un cambiamento radicale del ruolo dello spettatore, in particolar modo nel territorio di Internet. L’accesso agli strumenti di produzione ha fatto sì che users i producer fossero ormai interconnessi. «Eternal September», la tua prossima mostra, affronta proprio questa questione e traccia uno dei cambiamenti più radicali dell’avvento di Internet mettendo sullo stesso piano produzioni di artisti riconosciuti con quella di amateurs. Mi sembra che la traccia curatoriale si muova in un contesto ad ampio raggio, tra lo spazio fisico e il virtuale e tra le tecniche più varie, dalla scultura alla produzione on-line. Ci vuoi raccontare come è nato?
«Eternal September» è un progetto a cui ho iniziato a lavorare un paio d’anni fa, quando il mio interesse crescente per le produzioni creative amatoriali ha generato l’urgenza di affrontare il tema in maniera più sistematica. La frequentazione assidua della rete mi porta quotidianamente a contatto con un bacino enorme di contenuti creativi, che spesso provengono anche da contesti completamente estranei al mondo dell’arte. Ho iniziato così a osservare queste produzioni con un occhio più attento, le ho salvate, catalogate, commentate. E mi sono resa conto che ci troviamo di fronte al realizzarsi di una profezia che molti artisti e teorici avevano già avanzato negli Anni Sessanta e Settanta: il tramonto del professionalismo come modello di inquadramento dei talenti e delle capacità (pensiamo a Michael A. Noll, che parlava di «citizen artists», o a Gene Youngblood che parlava del «professionalismo» come di un paradigma legato all’Era Industriale).
Inoltre, in questa mostra affronto anche un altro tema: quello che in un articolo recente ho chiamato «contrappasso dell’arte». In sostanza, le immagini artistiche non godono più di nessuno status speciale una volta pubblicate sul web. Sono file come tutti gli altri, e come tali vengono trattati: vengono scaricati, modificati, remixati, condivisi. L’arte sta subendo da parte di una massa enorme di anonimi creatori lo stesso trattamento che ha operato da secoli su varie fonti iconografiche: appropriazione, remix, detournment, plagiarismo.
Come si disloca la mostra, e in particolare come renderai fruibili (se li renderai fruibili) nello spazio i progetti realizzati in rete, come The Importance Of Being Context di Valeria Mancinelli, Roberto Fassone e il tuo progetto di ricerca The Great Wall of Memes?
La mostra si svolge in gran parte presso la galleria Škuc di Lubiana, dove saranno esposti i lavori di una quindicina di artisti. I progetti sono molto diversi: ci sono video, installazioni, sculture, fotografie e dipinti. Sempre da Škuc sarà esposta la versione «fisica» del progetto The Great Wall of Memes, che è fruibile online sotto forma di Tumblr blog. In galleria realizzeremo un grande muro di immagini, circa un migliaio, organizzate in gruppi e sottogruppi tematici. In questo senso, la mia ispirazione, in senso molto lato data la differenza a livello storico e teorico, è Mnemosyne, l’Atlante della memoria di Aby Warburg. Il progetto di Valeria Mancinelli e Roberto Fassone invece sarà esposto esclusivamente online, nello spazio virtuale del Link Cabinet, curato da Matteo Cremonesi. Ci sono poi diversi eventi collaterali (proiezioni, talk, performance), che si svolgeranno presso Aksioma Project Space e, nel caso di Street Ghosts di Paolo Cirio, anche in strada.
«Eternal September» è un’espressione coniata nel 1994 da David Fisher per indicare il momento in cui, nel mese di settembre appunto, Internet ha aperto le sue porte, da un gruppo ristretto di specialisti del settore, al pubblico generale. Ora, in una direzione e con princìpi e finalità diverse, anche musei e istituzioni hanno favorito l’accesso a un pubblico più diversificato e meno specializzato rispetto a un tempo. In che senso credi che i musei siano diventati accessibili e come, a tuo avviso, è cambiato il modo di gestire i contenuti, tanto nel mondo fisico quanto in quello virtuale, alla luce di questa ampia apertura?
Il pubblico della cultura si è sicuramente ampliato e diversificato e i musei di tutto il mondo stanno facendo un grande sforzo didattico e divulgativo. Sia trovando nuovi modi di portare le persone alle mostre, sia rendendo accessibile il proprio patrimonio attraverso la rete, digitalizzando e favorendo la fruizione dei contenuti in forma digitale. Guardando all’Italia, però, siamo ancora piuttosto indietro purtroppo.
Si parla ora di «post internet» (così come si è parlato di post –media) e di «art after the internet», per riprendere la già citata antologia curata da Omar Kholelf [You are here – Art after the Internet], quale senso ti senti di attribuire ai prefissi «post» e «after» secondo la tua lunga esperienza?
Si tratta di etichette, strumenti spesso utili, ma molto limitanti. Sicuramente esiste un insieme di modalità espressive e di stili associabili ad un’epoca «post» Internet, ma resta una definizione estremamente vaga, che comprende al suo interno opere di natura molto diversa, sia come contenuto che come forma. Ritengo che si tratti di espressioni utili alla critica d’arte, che aiutano a contestualizzare i cambiamenti epocali che stiamo attraversando, ma è necessario che vengano sempre accompagnate da analisi più circostanziate e particolari, per non rischiare di perdere di vista la ricchezza più preziosa che Internet ha generato nel mondo: il riconoscimento continuo della diversità. Culturale e umana.
«ETERNAL SEPTEMBER The rise of amateur culture», collective show and collateral projects, curated by Valentina Tanni, Aksioma Project Space (Lubiana), Škuc Gallery (Lubiana), Link Cabinet, 02 – 26.09.2014
Images
(cover) Mark McEvoy, The silence of Marcel Duchamp is overrated, digital print, 2014 (1) Valentina Tanni (2) Paul Destieu, My favourite landscape, 2006 (3) Electroboutique, Artomat, 2012 (4) statue, selfie (5) Mauro Ceolin, Memezoology, handmade book and optical scanning, dimensions variables, 2013 (6) Ethernal September, flyer (7) Aled Lewis, Not Sure if Art, colour screen print, edition of 50, 2014.