Questa installazione è frutto di un processo evolutivo che, attraverso lenti e minimi cambiamenti, le consente di «crescere» come un corpo organico. Non cresce tuttavia nelle dimensioni, ma nella sua capacità di generare significato: il titolo, i dettagli, l’odore della carta, l’aggiunta di nuovi contenuti visivi, l’adeguamento all’ambiente che la contiene, partecipano a questa evoluzione, che è frutto di un processo causale, ma che si manifesta in modo del tutto sincronico e, apparentemente, fortuito.
Anche le mie parole, riferite a questa opera, la cui installazione ho avuto modo di curare per la seconda volta, sono frutto di una evoluzione: parole aggiunte su altre parole… sempre mie. Mi sembrava il modo migliore di accompagnare questo lavoro «organico» di Cannistrà: facendo in modo che attraverso le parole che la descrivono, l’opera porti con sé anche la propria storia.
Un antico dizionario etimologico alla parola «sfumare» assegna, tra le altre, questa definizione «Nella pittura è Dare il colore digradato in modo che lo scuro sia dolcemente confuso col chiaro, non altrimenti che un fumo che nell’aria si dilegua». E’ curioso che nella lingua italiana si conservi una stretta relazione tra la gradazione luminosa che si realizza nella pratica pittorica e l’effetto del dissolvimento del fumo nell’aria. Il fumo costituisce la più evidente manifestazione visibile di un passaggio graduale da una forma ad un’altra, da uno stato ad un altro: da solido (o liquido) a gassoso, da visibile ad invisibile, dalla luce all’ombra, ecc.
Cannistrà applica nero fumo ad un’ampia superficie cartacea, che avvolge interamente l’ambiente che la contiene, in modo tale che il supporto si carichi di una magica energia. Il fumo funge da catalizzatore della carta: aumenta gli effetti della reazione emotiva determinata da ciò che è rappresentato sulla sua superficie. Non vi appaiono tuttavia figure, tutto è vago, astratto, informe, (in una parola) «sfumato»… eppure l’installazione è in grado di suscitare le emozioni più disparate e con esse l’osservatore vi proietta l’immagine di ciò che nella vita reale suscita tali emozioni.
In questa particolare installazione di Pescara, la sfumatura fissata sulla carta, che dal basso tende verso l’alto, è introdotta da un’altra sfumatura non fissata, determinata dalla luce, che «si muove» dall’esterno verso l’interno dell’installazione, in linea orizzontale, e che accompagna il cammino del visitatore che dal corridoio di ingresso, dove si trova la luce, entra nell’opera totalmente al buio.
Il cammino del visitatore è indicato dalle linee tracciate da Alviani lungo le pareti del corridoio. Queste linee erano preesistenti l’installazione di Cannistrà, e nate in forma autonoma; tuttavia qui si sposano a tal punto con la nuova opera che tutto il percorso sembra frutto di un lavoro combinato dai due autori. I movimenti di luce ed ombra che animano le linee di Alviani, aggiungendo alla statica geometria una continua vitale irregolarità, introduce a ciò che sembra rendere viva l’installazione di Cannistrà: il suo respiro. Ogni visitatore che entra nel corridoio, con il proprio spostamento d’aria, muove, anche impercettibilmente, la carta; sicché, come un grande organo pulsante, l’opera si apre e si chiude, accogliendo e restituendo aria. I visitatori diventano parte dell’opera… e questa se ne nutre… si nutre del loro respiro… dei loro sogni… dei loro pensieri.
Nella sua installazione Cannistrà sceglie invece il linguaggio della latenza. Tanti sono gli elementi presenti in questa installazione che rimangono nascosti, latenti: tra cui ad esempio la tensione verso l’alto, il peso, il colore, la presenza di luce esterna alla superficie «dipinta», il suono… Cannistrà ha lavorato per sottrazione di elementi, che tuttavia rimangono presenti in forma potenziale.
L’artista modifica «concettualmente» il bianco indifferenziato delle pareti della sala: è come se le pareti stesse fossero ripiegate a creare una modanatura aggettante e irregolare in grado di assorbire elementi interni ed esterni all’ambiente, ma anche la fantasia e le suggestioni di coloro che entrano all’interno dell’installazione.
Come una nebbia uniforme, il nerofumo impedisce qualsiasi possibilità di orientamento. Ma ciò significa anche che tutte le possibilità restano aperte. Bastano poche modificazioni nella sua composizione perché l’osservatore possa credere di intravedere qualcosa di corporeo, il “fantasma” di una figura.
Tra i tanti visitatori che hanno già visitato le installazioni cartacee precedenti di Cannistrà è molto frequente la sensazione (ancestrale) di trovarsi all’interno di un bosco; la luce esterna crea appena percettibili ombre che proiettano oltre al profilo dei corpi anche le immagini dei racconti e dei ricordi delle persone. La tensione verticale – suggerita dalle linee delle piegature e introdotta dalla tensione orizzontale delle linee di Alviani – si tramuta in una tensione verso la propria interiorità e la necessità di esternarla. Il respiro del visitatore si adegua così a quello dell’opera e ne diventa parte.
Al centro di questo «grande respiro» di Cannistrà è la piramide sospesa. I tanti significati generati dall’installazione di condensano così in un unico simbolo ancestrale. E’ nel suo movimento, che è generato dal passaggio stesso dei visitatori, si manifesta – come opera – l’incontro tra eventi causali ed eventi sincronici, tra realtà visibile e realtà potenziali… tra ciò che è e ciò che potrebbe essere.
Ascoltare più uno di me, a cura di Marco Izzolino, Alviani Art space, Pescara, fino al 7 settembre
Immagini (tutte), Alessandro Cannistrà. Ascoltare più uno di me, exhibition view photo by Manuel Vallescura