Hai recentemente partecipato a Contain[era], un progetto itinerante, a breve a Praga, che si propone di osservare e di contribuire a definire il post-internet attraverso i lavori di artisti internazionali. La definizione di post-internet ha trovato una sua pubblica legittimazione con Marisa Olson nel 2006, per proseguire in continue discussioni e ri-formulazioni, ancora oggi aperte. Il prefisso «post» è stato definito nella sua funzione temporale, nell’influenza di internet, nel suo ricollocarsi in una simultaneità temporale che concepisce unicamente il presente, in generale, nell’ambiguità del termine. Cosa significa per te post-internet?
Ma Post-Internet col trattino o PostInternet senza trattino? E Postmedia dov’è finito? già finito?
Sono confuso e sorpreso, non me n’ero accorto. Ci provo:
Forse bisognerebbe distinguere Post-Internet age o «era» da Post-Internet come tipo di arte (o quello che passa per questo).
Per quanto riguarda PI age, mi sembra non dica molto sul periodo che stiamo vivendo. Mi sfugge il fondamento teorico di Post usato come «una condizione che (a) non potrebbe esistere prima di internet (in termini tecnologici, fenomenologici ed esistenziali) e (b) esiste in qualche modo nell’influenza di internet. (…)E’ un arte che si incarna nelle condizioni di vita della cultura del network, art after the internet»[1] Qui si parla di arte però. O di Age? Comunque: così per circa 10 anni (di massa) c’è internet poi Post Internet. Ma ora siamo Post-Internet da 10 anni (2006-2016). Quindi si cambia di nuovo.
E’ interessante perché questo approccio fa sì che quando c’è qualcosa che influisce e cambia la società, come Internet appunto, prima non c’era e non la chiami in nessun modo, poi quando c’è (Internet) teorizzi il Post-qualcosa, dicendo che non è temporale ma vive nella sua influenza (?)
Ma proprio perché prima non c’era e poi c’è e tu ci appiccichi il POST, come minimo è temporale de facto, non si sfugge.
Viviamo un’età forse più matura e diversificata del web, più di quanto lo fosse all’inizio, per ovvie ragioni… Siamo in piena Internet age. Con un accesso e un uso continuo e dislocato che prima era impossibile.
L’uso di «Post» tra l’altro è fastidioso a prescindere. Magari dovremmo chiedere a un sociologo.
A me interessano i lavori.
Post-Internet come è pensato da Marisa Olson è doping per ingannare la menti fragili. Conclude il suo articolo con: «possiamo dire che tutti i lavori sono post internet perché tutti sono prodotti nell’era del post internet»[2]. Sgarbi dice che tutti i lavori contemporanei sono arte contemporanea. Va bene tutto. E poi quando ha inizio la post internet era?
Se uno si sofferma sui lavori Post Internet, mi sembra sia dia spazio in larga parte ad artisti in cerca di un ruolo mediatico istantaneo più che alla ricerca di un’opera d’arte. In PI si annidano lavori semplici e scontati e immediati. Osceni direi, nel voler essere «oggetti» a tutti i costi, che giocano il ruolo dello «sciocco dal basso profilo ammiccante e autoreferenziale» per testimoniare la fragilità di certa cultura giovanile e non solo. YouTube, chat e via dicendo (ci sono anche i colori fluo). Ma la fragilità più grande, quella intellettuale, sta nelle opere e ancor più in chi gli da spazio.
Ci sono artisti che «oggettualizzano» il web da 15 anni almeno. Altri che scrivono codice dall’alba dei tempi.
Mi sembra sempre un po’ il tentativo di creare dei mini club a comparti stagni per esigenze personali.
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Per il container di Contain[era] hai allestito una nuova versione di Localhost, un progetto presentato nel 2013 a Zurigo [realizzato nell’ambito di una committenza da parte della Zurich Art University e deutsche bank ]. Questo è un lavoro che si completa nella ricezione da parte del pubblico. Ci puoi raccontare di qualche aneddoto rispetto alle reazioni del pubblico nelle varie località in cui lo hai presentato (Zurigo nel 2013, e ora Roma e Praga)?
Ė difficile averne perché si dovrebbe passare ore ad osservare, cosa che non mi ė ancora capitata. È un lavoro un po’ utopico e vive di una contraddizione che ė quella di «chiedere» un intervento ordinato ma di farlo in un luogo «disordinato», in pubblico, senza costrizioni. E quindi il risultato finale è un po’ figlio di questo. La pagina bianca scatena forze primordiali. Mi interessava l’idea di un intervento tipo murales in progress e partecipativo.
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Ci puoi raccontare come è nato Koh-iN∞r proiettato all’interno del Container?
Si tratta di un video del 2014. Koh-iN∞r significa «montagna di luce». Un breve video che racconta come la mia sia una generazione di mezzo che fa da bastone digitale per un mondo antico, quello di mio padre, e da trampolino per uno nuovo ancora tutto da scoprire che apparterrà a mio figlio.
I poligoni bianchi sono in realtà gli schermi dei miei apparecchi portatili che illuminano di luce propria le figure distese abbracciate, e si divertono a creare coreografie animate con un retrogusto da manga giapponese. E’ un loop ipnotico su una traccia non pubblicata di Moby, che grazie al suo agente ho avuto in concessione commerciale destinando il 20% dei guadagni a una fondazione che aiuta gli animali a cui Moby è legato.
Internet lo hai visto nascere e lo hai da subito adottato nel tuo lavoro tanto come soggetto dei suoi dipinti, quando come strumento «vivo» da includere e far funzionare in vario modo nei tuoi lavori installativi. Ogni tuo lavoro ha in qualche modo (spontaneamente) attraversato le varie evoluzioni di internet. C’è stato un momento in cui hai sentito più marcato lo slittamento di internet verso una nuova fase? Se sì, quale dei tuoi lavori ritieni più rappresentativi di questo cambiamento?
Ci sono stati dei momenti in cui ho percepito delle accelerazioni o dei cambiamenti, che questo poi abbia influito sui miei lavori non so. Mi riferisco a Flash, al suo continuo migliorarsi ed esplodere come standard ovunque. E ai social network dai quali sono sempre stato un po’ lontano. C’è stata l’ondata di Second Life… che sembra stia tentando un rilancio anche grazie agli hardware immersivi a basso prezzo.
Da sempre, con i tuoi lavori ha creato opere originali ma anche interessanti provocazioni rivolte al mercato del digitale, dove l’aspetto effimero, transitorio e vivo dei lavori crea resistenza da parte dei collezionisti. Con la serie di Altar Boy, per esempio, avevi creato un opera software contenuta in una componente fisica (una valigia) e avevi fatto sì che il collezionista potesse decidere se e quando condividere quella parte di contenuti che poteva confluire nella rete. Poi, hai ideato un nuovo formato che ha incluso il lavoro in libri d’artista. Ci puoi raccontare di questo tuo progetto?
Altarboy era molto complesso, forse troppo per il tempo (2003-2004). Un computer portatile, nascosto in una valigetta, funzionava da webserver su cui girava un lavoro con cui il pubblico poteva interagire e allo stesso tempo prendeva immagini dalla CNN. Veniva venduto il server fisico nascosto nella scultura, il codice, e veniva trasferito il TLD name, il dominio Internet. In questo modo il collezionista diventava proprietario del codice, amministratore del server e titolare del nome del sito.
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ViBo è un progetto che al contrario è estremamente più semplice, lo sto cercando di sviluppare con Paul Young Projects di Los Angeles allargandolo ad altri artisti. E’ come una penna USB a forma di libro, con incorporato uno schermo LCD. Lo uso per vendere lavori single channel e non solo. Uno la compra si scarica i file sul computer e se li archivia e li preserva. L’idea che c’è dietro è di provare a vendere la video arte e certi lavori web con un modello più simile a quello di libri e musica più che a quello di pittura e scultura. Quindi copie potenzialmente illimitate, non firmate, a basso prezzo. E poi c’è il digital download.
Hai lavorato da sempre con una varietà di materiali. Oltre a sperimentazioni di vario tipo, la pittura ha sempre accompagnato il tuo percorso di ricerca. Si parla oggi di pittura post-analogica. Cosa significa per te questo termine, (se significa qualcosa)? Come si pone la pittura nella tua ricerca di oggi?
Sai cosa? L’uso di Post ci impedisce di pensare a nuovi termini a nuove parole e per parafrasare Wittgenstein, ci impedisce così di sognare nuovi mondi e «Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere».
[1] M. Olson, Post Internet. Art after the Internet, FOAM Magazine, # 29, winter 2011, http://www.marisaolson.com/
[2] M. Olson, Ibidem
Carlo Zanni sarà presente nell’ambito del progetto itinerante Contain[era] che dal 24 ottobre raggiunge l’ultima tappa a Praga dove si confronteranno tutti i container con i rispettivi progetti, Island Štvanice, Praga, 24.10.2015 (inaugurazione) – 7.11.2015
Contain[era], il progetto itinerante che dal 20 agosto ha visto otto container trasformati in gallerie mobili da 8 artisti di 8 città europee: Praga, Bratislava, Varsavia, Budapest, Roma, Zurigo, Berlino e Vienna. «Condividere e ottenere informazioni, oltrepassando il divario di informazione a livello locale e globale, scoprire le nostre radici nell’era post-Internet – questi sono i temi del progetto espositivo internazionale Contain[era], materialized Information Transfer in the Post-Internet Era. “Uno degli obiettivi di Contain[era] è di materializzare la modalità di condivisione delle informazioni a cui ci siamo abituati nell’era post-internet. Costantemente adottiamo e riversiamo contenuti: la condivisione è il ritmo della nostra generazione” affermano le ideatrici del progetto: Alexandra Karpuchina – Art Direct, Jana Kubátová, Inter-Art e la curatrice Magdalena Hartelová.Roma ha contribuito a grazie alla partecipazione di Label201. Artisti: Adéla Součková (CZ), Dionýz Troskó (SK), Janos Bruckner (HU), Karol Komorowski (PL), Angela Kaisers (DE), Lukas Troberg (AT), Till Koenneker (CH), Carlo Zanni (IT).
Immagini (cover-1) Carlo Zanni, «Localhost», site-specific project for Contain[era], Tram Depot, Roma, photo by Luisa Galdo (2) Carlo Zanni, «Koh-iN∞r», Contain[era], Tram Depot, Roma, photo by Luisa Galdo (3) Carlo Zanni, «Altar Boy. Oriana», 2004