Gretchen Andrew (b California. 1988) ha iniziato a dipingere a San Francisco dopo aver acquisito la convinzione che internet ci può insegnare qualunque cosa. La sua pratica comprende pittura tradizionale così altri generi che possano rispondere ad un’indagine che ruota attorno ai processi di conoscenza e divenire. Ha portato a termine progetti con The New York Metropolitan Museum of Art, il V&A Museum, il The British Film Institute, il Lumen Prize for Digital Art, il The British Arts Council e il White Building. Attualmente lavora con l’artista londinese Billy Childish. Durante la residenza da Arebyte Gallery a Londra (inverno 2016) ha indagato la validità dell’affermazione per la quale su internet si può imparare tutto. Le gifs originano da questo corpo di indagine, trasferendo il corpo performativo dell’artista nello spazio liminale della dimensione liquida. In questa intervista Gretchen parla del suo percorso professionale, dal lavoro a Silicon Valley a quello di artista, discute di argomenti generali relativi al post-digitale e al post-internet, e torna nello specifico della sua ricerca per raccontare dei lavori prodotti per il progetto (e mostra) HOW TO HOW TO HOW TO da Arebyte, a conclusione della prima fase di residenza.
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Puoi cominciare parlandoci della tua esperienza nella Silicon Valley?
Mi sono laureata al Boston College in Sistemi Informatici – bello, vero? Scherzavamo sempre dicendo che era un po’ come laurearsi in Internet. In realtà l’obiettivo del corso era comprendere come sfruttare il potenziale competitivo della tecnologia. Titoli delle lezioni erano, per esempio, «Industrie del settore New Media», «ECommerce» e «Social Media per il Management». Al Boston College ho imparato come la tecnologia possa essere impiegata per creare qualcosa o qualcuno di insostituibile, ed utilizzata in operazioni di interruzione e disintermediazione. Sono le idee che guidano il mio percorso di artista.
Dopo aver frequentato il primo anno, feci un colloquio per un lavoro estivo alla Intuit (Mint.com, quickbooks, turbotax). All’incontro il direttore mi presentò una lista di linguaggi di programmazione e scripting, e mi chiese «Li conosci?». Risposi che avevo familiarità con alcuni, e che per il resto potevo imparare. In realtà, ne conoscevo solo un paio – e non certo alla perfezione. Durante le tre settimane precedenti all’inizio del lavoro usai internet per imparare le basi di javascript, xml markup, php e python. L’estate fu un successo. Alla fine riuscii a lavorare part-time durante i mesi scolastici e full-time nel periodo estivo. Dopo la laurea sono poi stata assunta da Google per lavorare nella divisione di «People Technology», un ramo delle Risorse Umane dedicato allo sviluppo e alla gestione di software interno, creato e utilizzato esclusivamente dall’azienda.
Avevo un capo terribile che mi faceva sentire come dentro ad un fumetto di Dilbert… una situazione che certo non corrispondeva all’immagine dell’azienda pubblicizzata da Google. Ma all’epoca ero una novellina, e avevo la sensazione che la situazione non fosse dovuta ai miei limiti. In questo periodo ho iniziato a riflettere sul da farsi nel caso in cui questo “«avoro dei sogni» non fosse stato adatto a me. Certo non puoi lasciare Google per andare a lavorare da Amazon e credere che le cose andranno meglio.
Se potessi tornare indietro, sarei in grado di gestire in modo più maturo le difficoltà che ho incontrato, ma in quegli anni sapevo già di volere trovare «un lavoro per la vita», e non semplicemente cercare di mantenere un equilibrio tra vita professionale e privata. Di conseguenza, prendevo tutto in modo molto personale. Non sapevo di voler diventare un’artista, ma credevo che esserlo mi avrebbe dato un’energia assolutamente impensabile per un lavoro d’ufficio. Ho anche pensato di mettermi a suonare il banjo.
In questo modo, HOW TO HOW TO HOW TO precede la mia pratica pittorica in quanto una delle sue domande principali, ossia «posso imparare ad essere ‘qualcosa’ online» è stata pensata prima che io decidessi di diventare pittrice.
Durante la mia esperienza nella Silicon Valley ho anche potuto respirarne l’utopica energia, la fiducia incrollabile nella capacità della tecnologia di rendere tutto infinitamente migliore, nel presente come nel futuro. C’è una certa pretenziosità e vulnerabilità in questa energia, un’energia che mi ha comunque instillato la sensazione di poter imparare a fare, e quindi essere, qualsiasi cosa. E mentre la mia esperienza pittorica continua a fare attivamente pressione su questo assunto, la mia intenzione è stata anche quella di metterlo in discussione. Un obiettivo realizzato da HOW TO HOW TO HOW TO, che applica questa assunzione ad altre aree.
Eri già a conoscenza dell’esistenza di sperimentazioni artistiche su internet, note come internet art, net.art, ecc.?
Quando avevo 13 anni, mio padre mi fece conoscere Flash: ho quindi dovuto imparare un linguaggio che oggi è praticamente inservibile, chiamato actionscript. Facevo sperimentazioni con l’animazione web, la pittura con photoshop e i linguaggi di markup. Come risultato, mi sono ritrovata a creare del materiale che oggi potrebbe essere definito come Net Art. In quegli anni, però, non pensavo a fare dell’arte. Stavo semplicemente esplorando l’identità e creando parole visuali. È stato il mio modo di crescere online.
Più tardi ho acquisito maggiore consapevolezza sulla Net Art grazie ad articoli come Man and Machine. Mi sembrava che molta della Net Art mancasse di sincerità. Era molto vicina ai cosiddetti «prank/scherzi». Un lavoro interessante, ma che non faceva per me. L’arte che amo è molto lontana dall’ironia. Ricordo di aver temuto che l’arte contemporanea fosse un gioco che non riuscivo a comprendere, uno scherzo per l’outsider. Credo che le persone abbiano ancora questo timore, che isola l’arte dal resto del mondo. È una situazione che danneggia tutti.
Il valore della sincerità è evidente in HOW TO HOW TO HOW TO, soprattutto quando scelgo i video di YouTube dai quali imparare. Ho deciso di selezionare da «How To» solo i video che sembrano cercare, in buona fede, di insegnare qualcosa, anche se si tratta di consigli decisamente insoliti, come ad esempio bere uno sciroppo per la tosse per concepire un bambino o mettere la mano in una borsa piena di ghiaccio per prepararsi al parto.
Nella ricerca della sincerità del mezzo ho anche scoperto cose che mi hanno decisamente infastidito, come ad esempio i video che propongono esercizi per mantenere in forma la vagina. Credo di essere contento dell’esistenza di questi video. È triste, ma anche liberatorio. Ci ricorda che internet lavora simultaneamente a livello della domanda e dell’offerta. A volte le persone producono contenuti che nessuno guarda, mentre in altri casi si utilizzano gli strumenti di Google Search per scoprire le tematiche più ricercate e produrre contenuti adeguati alla richiesta. In entrambe le modalità, i risultati sono onesti rispetto alle nostre necessità, ai nostri desideri e alle nostre ansie.
Ci sono molti video parodia di «come essere sexy», ma quelli più sinceri riscuotono un maggiore successo in termini di visualizzazioni. Le parodie contengono un commento culturale ma ti fanno anche sentire stupido per aver fatto la domanda. Apprezzo molto il coraggio di internet che deriva dalla creazione, da parte degli utenti, di contenuti maldestri o vulnerabili, contenuti che possono anche svelare le nostre insicurezze e vanità. Credo che la rete sia pronta, così come il resto del mondo dell’arte, per una maggiore sincerità. Sono inoltre convinto che la vulnerabilità sia un percorso da seguire in questo senso.
La tua ricerca e il tuo lavoro sono un connubio di pittura tradizionale e tecnologie di ultima generazione. Puoi parlarci del tuo background, del tuo incontro con la pittura e l’arte su internet?
Ho iniziato il mio percorso di artista impostando la chiave di ricerca How To… su YouTube. Come tendere una tela, dipingere nuvole, disegnare mani, ecc. Ho anche imparato dal MoMA e dalla Stanford Online, partecipando a una lezione gratuita di quest’ultima riguardante la ricerca basata sull’esperienza. Inizialmente, la mia pratica digitale derivava dal desiderio di digitalizzare in modo creativo i miei dipinti, di dare alla loro vita digitale la stessa importanza e lo stesso significato di quella reale. Per fare questo, ho usato videocamere indossabili e la realtà virtuale, assumendomi la responsabilità della modalità con la quale il mio lavoro diventa pubblico. Penso ai miei video e all’esperienza della realtà virtuale come ad opere d’arte in se stesse, non solo a suggerimenti di qualcosa di «fisico». Con HOW TO HOW TO HOW TO, per la prima volta il mio lavoro digitale è separato dalla pratica pittorica. Condividono un ethos simile, ma non interagiscono fra loro.
Hai già iniziato la tua residenza artistica presso Arebyte. Quali sono le tue aspettative rispetto alla tua ricerca e cosa è già cambiato fino a questo momento?
Ho lavorato con il direttore per strutturare la residenza in modo da suddividerla in più fasi distinte. La prima si è svolta a febbraio ed ha incluso la creazione di 90 animazioni .gif, ognuna incentrata su un’azione distinta, appresa dai video “How To” su YouTube. Ad esempio, potrete vedermi applicare lo schermo solare in «come rallentare l’invecchiamento».
In questa fase erano presenti alcune tematiche, mentre la dimensione temporale è stata intenzionalmente trascurata. La mia intenzione era quella di creare molto contenuto, attraverso il quale poter definire un processo e sperimentare differenti modalità di presentazione. In questo modo ho anche potuto scoprire quali tematiche fossero contraddistinte da una maggiore vitalità. Alcune idee concettualmente forti non avevano un impatto visivo altrettanto efficace. La fase seguente durerà fino a novembre, e si concluderà con una mia esposizione personale. Attualmente sto elaborando quello che ho imparato e selezionando le aree di approfondimento. Sto lavorando ad un .gif composito su «come avere piedi, dita, gambe, addominali, pelle, denti (ecc.) perfetti».
Puoi dirci qualcosa in più sul progetto che stai sviluppando ad Arebyte?
HOW TO HOW TO HOW TO esplora cosa si può e non può imparare, passando attraverso l’apprendimento e il divenire, e grazie al tempo, alla costanza e a ricerche di “Come…” su YouTube, quali ad esempio: come morire, come parlare giapponese, come essere sexy, come fare la spaccata, come essere religiosi. Il risultato è sia performativo che visuale, implicito e basato sugli oggetti, digitale e fisico. Il .gif, con il suo loop ripetitivo, viene usato come mezzo privilegiato per suggerire e mettere in dubbio la nozione di «la pratica rende maestri».
Le versioni .gif di me stesso cercano, con infiniti tentativi, di fare spaccate, camminare sui tacchi alti e preparare un corpo per la sepoltura, anche quando il corpo fisico dell’artista è distratto o esausto. Le mie identità .gif esistono in un mondo dove il tempo, l’energia, e la motivazione appaiono essere solo limitazioni al successo.
Si può imparare tutto su internet? HOW TO HOW TO indaga sulla validità e sui limiti di tale affermazione. Cos’altro hanno promesso internet e la tecnologia? Cosa ci limita? Connotazioni genetiche, privilegi familiari, sociali e di classe esistono nelle nozioni di successo e fallimento.
La tematica che ho maggiormente sviluppato fino adesso è il ciclo della vita, dove 20 animazioni .gif prendono vita in un cerchio che parte da come concepire, prepararsi al travaglio, partorire, e attraversa poi le fasi della crescita, della maturazione dell’individuo, di un invecchiamento dignitoso, fino ad arrivare alla morte, alla preparazione del corpo per la sepoltura, e infine alla rinascita.
Hai anche dipinto un lavoro dell’artista digitale Petra Cortright. Puoi raccontarci qualcosa in più su questo progetto?
La de-digitalizzazione (tramite il dipinto ad olio) del lavoro di Petra è stata un modo per suggerire una relazione, contraddistinta da varie sfaccettature, tra il digitale e il mondo fisico. Ho riscontrato una visione molto ristretta dell’arte digitale, che ho voluto sfidare. Nello specifico, ho voluto mettere in discussione la nozione secondo la quale gli oggetti digitali che hanno un omologo fisico dipendono gli uni dagli altri per quanto concerne il significato. Tendiamo a trattare le foto digitali dei dipinti come a «segnalazioni» simili al linguaggio che indicano la via verso le cose fisiche, e come tali pertanto prive di una vita propria. Le immagini non sono come le parole, che suggeriscono un significato incorporeo. Sono capaci di indurre esperienze primarie sostanzialmente diverse da quelle provocate dagli oggetti provvisti di fisicità, a causa, tra le varie motivazioni, dell’estetica «mediante» del dispositivo. Ho anche voluto fare un’asserzione audace sul canone dell’arte digitale. Spesso realizzo dipinti, versioni di lavori di maestri affermati. Facendo la stessa cosa con i paesaggi di Petra, intendo ipotizzare che la Net Art/l’arte digitale abbia una storia consolidata dalla quale possiamo prendere in prestito e «rubare» idee. Sto applicando questo metodo a HOW TO HOW TO HOW TO, nominando me stessa il «prossimo modello ‘top’ dell’animazione .gif», un riferimento all’Animated Gif Model di Olia Lialina del 2005.
Consideri il digitale come qualcosa di concreto? Quali sono le sue potenzialità e i suoi limiti?
Il digitale ha una connotazione materiale, nel senso che è fatto di cose fisiche. Molti artisti lavorano per rendere più visibile l’aspetto fisico del web server farm, cavi in fibra ottica, ecc. Il digitale è «materiale» anche perché è importante, essenziale. Ritengo che la digitalizzazione sia un processo artistico, la responsabilità del pittore di oggi, allo stesso modo in cui si determina in che modo il suo lavoro viene esposto in una galleria tradizionale. Uno degli aspetti più complessi del digitale consiste nel fatto che esso è sempre mediato dall’estetica del dispositivo. Questo può essere un limite nel caso in cui l’artista sottovaluti tale particolarità.
In questo ambito, è rilevante l’idea del monismo digitale, il postulato metafisico secondo il quale il nostro mondo umano è indissolubilmente digitale e non digitale, online e offline o, in termini obsoleti, virtuale e reale. Mentre i contenitori che usiamo si sgretolano, sia nell’arte che nella vita, credo che sia importante affermare una definizione incondizionata/non qualificata del reale.
Nel 1996 il curatore americano Steve Dietz ha fondato il programma di new media art del Walker Art Center, analizzando i network e la computazione con un focus incentrato sul processo più che sugli oggetti. Una recente corrente filosofica, chiamata Object Oriented Ontology, ossia ontologia orientata sull’oggetto, traspone l’oggetto al centro dell’essere. Qual è la tua posizione a proposito? (puoi anche leggere l’intervista di Valentina Gioia Levy al curatore ceco Václav Janoščík in occasione della sua mostra Return of the Object + The Disorder of Things alla Galleria Galerie | Kvalitář di Praga)
Esistono due tipologie prevalenti di linguaggi di programmazione: la programmazione incentrata sull’oggetto (object oriented programming, OOP) e la programmazione procedurale. La differenza consiste nel dare precedenza all’oggetto nell’approccio OOP, o all’azione nella modalità procedurale. Ad esempio, un programma orientato verso l’oggetto definirà per primi i dati che dovranno essere manipolati, gli oggetti come ad esempio una carota, per poi passare ad individuare le potenziali azioni sulla carota stessa, che può essere mangiata, cucinata, sbucciata, ecc. Nella programmazione procedurale viene prima definita l’azione della sbucciatura, e in seguito si procede ad individuare la necessità di una carota. Sia gli oggetti che le azioni finiscono per essere iscritti nel codice. È una questione di ordine, e tale ordine ha inevitabilmente un effetto sulla struttura del programma risultante. Considerando la questione secondo questo approccio, la mia comprensione degli oggetti non è dipendente dal materiale.
L’ontologia orientata verso gli oggetti affronta la medesima questione: iniziamo prima con gli oggetti o con le azioni? Questa filosofia è simile all’ OOP; è la supremazia delle cose sulle azioni, con le opere d’arte come i dipinti che forniscono più significato rispetto al loro processo di creazione. Questo è sinonimo della mia esperienza creativa. Come disse Walead Beshty, «Tutto comincia con materiali di base: cellulosa, lipidi, proteine, plastica…». Esistono gli oggetti. Gli artisti decidono poi cosa è possibile farne.
HOW TO HOW TO HOW poteva essere realizzato secondo entrambe le modalità, OOP o OOO. Ho dato uno sguardo agli oggetti che avevo a disposizione (YouTube, il mio corpo, schermi verdi) e ho dato vita al progetto. Ma all’interno di HOW TO HOW TO HOW TO è presente un approccio procedurale o non OOO. Invece di guardare al mio corpo e prendere in esame le azioni che si potevano portare a termine, ho selezionato una serie di azioni e cercato di attuarle su di me. Tutto comincia con l’idea di “come andare sullo skateboard”; è a questo punto che entrano in scena le gambe e uno skateboard. Si parte dall’azione di “fare la spaccata”, per poi coinvolgere il corpo nell’azione. Se avessi iniziato dalle gambe, l’azione della spaccata non sarebbe stata presa in considerazione. In tal senso, HOW TO HOW TO HOW TO esplora gli approcci nonOOO. Alcune cose che si pensavano possibili possono accadere durante il percorso. E si può anche perdere tanto tempo.
Come definiresti, relativamente alla tua pratica artistica ma anche nella tua esperienza di vita, il post-internet (supponendo che sia legittimo utilizzare questo termine per riferirsi ad un momento durante il quale conduciamo la nostra esistenza «dentro» internet)?
L’arte Post-Internet utilizza internet ma non è incentrata sulla rete. Internet è uno strumento, non un soggetto.
Da Barnett Newman ho imparato la differenza tra i soggetti e gli oggetti: un dipinto può raffigurare una mela ma non avere necessariamente le mele come tematica. Un dipinto astratto può non presentare alcun oggetto identificabile, ma ciò non significa che sia privo di un soggetto. Il rapporto tra il post-internet e la tecnologia è simile. La rete e i suoi strumenti possono sembrare come oggetti o mezzi, ma non come soggetti. Personalmente utilizzo il .gif come mezzo per le sue qualità formali intrinseche, non per realizzare lavori riguardanti animazioni .gif.
Fino a quando non me lo hai chiesto, non avevo pensato a questo aspetto come una condizione da applicare alla mia vita; in realtà descrive piuttosto eloquentemente il mio passaggio dal lavoro sulla tecnologia interna per un’azienda tecnologica che si occupava di prodotti tecnologici ad un contesto esterno, dove considero i prodotti che escono sul mercato come strumenti. Spostarsi da San Francisco a Londra fa molto “postinternet”.
immagini (cover 1) Gretchen Andrew, «How to Prepare Body for Burial at Home», part of the series realized for the project HOW TO HOW TO HOW TO at Arebyte Gallery, London, 2016 (2) Gretchen Andrew, «How to Forget»,part of the series realized for the project HOW TO HOW TO HOW TO at Arebyte Gallery, London, 2016 (3) Gretchen Andrew, «How to fake an Orgasm», part of the series realized for the project HOW TO HOW TO HOW TO at Arebyte Gallery, London, 2016 (4) Gretchen Andrew, «HOW TO BE Sexy», part of the series realized for the project HOW TO HOW TO HOW TO at Arebyte Gallery, London, 2016 (5) Gretchen Andrew, «How to get drunk»,part of the series realized for the project HOW TO HOW TO HOW TO at Arebyte Gallery, London, 2016 (6) Gretchen Andrew, «How to Prepare for Birth», part of the series realized for the project HOW TO HOW TO HOW TO at Arebyte Gallery, London, 2016