Presso la Galleria NOME, a Berlino, è in corso “Agency”, mostra di James Bridle, che prosegue la sua ricerca sul paesaggio contemporaneo, in particolare per come questo prende forma nell’infrastruttura del network, delle dinamiche di sorveglianza di massa, nell’opacità degli oggetti tecnologici, e in tutto ciò che questi lasciano intravedere del loro funzionamento. Era questa visione che, nel 2011, aveva dato vita alla New Aesthetic. Nella mostra “Agency” la sua ricerca è strettamente intrecciata con quella degli undici artisti invitati, lavori che rivelano sfaccettature e angolazioni diverse di un paesaggio sempre più opaco. Conquistare consapevolezza sul vero funzionamento della tecnologia è il primo passo per combatterne il monopolio, per trovare un punto di incontro dell’uomo con la macchina a metà strada / is about meeting technology halfway – come ha dichiarato Bridle in un’intervista rilasciata poco tempo fa a Kristian Madsen. Bridle racconta della mostra di NOME, proseguimento di una ricerca che si posiziona tra arte, scienza e politica, estensione visiva e collettiva di riflessioni che dai suoi lavori tra scrittura, software e installazione, che si sono ritrovati nella sua recente pubblicazione New Dark Age. Technology and the End of the Future (Verso, 2018) Attraverso la mostra “Agency” trovano, ora, una nuova contiuazione, presa di posizione e di negoziazione tra uomo e tecnologie che parte dalla consapevolezza. La mostra sembra, quindi, riprendere il discorso dalla frase con cui si conclude il volume Dark Age: We are not powerless, not without agency, and not limited by darkness.
“Sorveglianza di massa, terrorismo transnazionale, cambiamento climatico, teorie cospirazionali, anti-social media e capitalismo rapace” sono alcuni dei temi che tracciano il profilo dell’era oscura di cui discuti nel tuo ultimo libro intitolato New Dark Age. Technology and the End of the Future. Questi temi sono confluiti nella mostra “Agency”, presso la Galleria NOME, attraverso le opere di numerosi artisti provenienti da paesi e background diversi. Puoi raccontarci della mostra e di come gli artisti sostengono la tua visione e propongono approcci possibili?
Questi temi sono costantemente presenti tanto nelle mie opere visive quanto nei nei saggi. Ciò che li accomuna tutti è il loro effetto paralizzante. Nell’affrontare i pericoli che caratterizzano la nostra epoca, la reazione più comune è l’apatia o la paura (che spesso si trasforma rabbia). Entrambe queste reazioni ci impediscono di agire in maniera significativa e costruttiva. Inoltre, molte delle risposte artistiche a queste problematiche non fanno che ripetere la loro stessa logica senza andare avanti: le risposte al cambiamento climatico sono semplice rappresentazione. Quindi ripetono e amplificano, l’orrore; le rgomentazioni sulla sorveglianza di massa o sui social media coincidono spesso con un modo di agire nei confronti dell’audience che è lo stesso che condanniamo nell’originale.
Nella mia opera sono troppo consapevole della presenza di questo modello, cerco quindi di contenerlo attivamente. Traggo ispirazione da una serie di artisti che, nelle loro opere, hanno trovato il modo di farlo: le opere in mostra da NOME sono proprio una selezione di questi lavori. Anna Ridler si fa carico del peso oppressivo delle rivelazioni di Wikileaks, della loro segretezza e violenza e riesce a tirare fuori qualcosa di umano, perfino di affascinante – che non svilisce la loro gravità, ma ci permette di affrontarle senza cadere nella trappola della paura/apatia. Ingrid Burrington frantuma un iPhone riducendolo in polvere tossica e lo riconfigura in una palla di cristallo, ricordandoci il debito materiale dei nostri dispositivi e il potere che essi esercitano su di noi, prendendosi candidamente gioco della nostra dipendenza e fiducia in loro.
Suzanne Treister porta l’Agenzia per la Sicurezza Nazionale nella sfera dell’arte e dell’azione con un rimando al famoso dipinto di Ed Ruscha in esposizione al LACMA e al suo – forse nostro – desiderio di dargli fuoco. E così via con gli interventi nel mondo dei social media di Constant Dullaart, gli usi rivoluzionari della stampa 3D di Morehshin Allahayari, la ri-calibrazione della bandiera dell’ISIS da parte di Navine Khan-Dossos e l’erotizzazione del tempo profondo nell’opera di Sophia Al Maria.
In ciascun caso, l’artista tratta tematiche di profonda attualità e serietà, ma riesce a fuggire dal pozzo gravitazionale del trauma, lasciandoci ancora liberi di respirare e in grado di pensare e agire.
Molti degli argomenti discussi nel libro, tra cui i droni, l’Intelligenza Artificiale e la Glomar Response, hanno rappresentato i temi delle opere esposte in diverse tue mostre in tutto il mondo, di cui una serie realizzata da e con NOME. In che modo l’arte si collega alla tua scrittura?
Per me la scrittura e le arti visive sono inestricabilmente legate. Ciascuna trae energia dall’altra; ciascuna si trasforma nell’altra. Posso discutere, ad esempio, dell’Intelligenza Artificiale come qualcosa da teorizzare, su cui riflettere e di cui scrivere, così come qualcosa da abbracciare fisicamente e artisticamente, con cui essere impegnati in modo pratico, da utilizzare. Entrambi rappresentano dei modi di analizzare i temi sollevati, proprio come le diverse pratiche materiali evidenziate in “Agency” possono convergere attorno ad argomenti simili.
La mostra risponde al mio libro nel tentativo di dimostrare che l’azione – nell’arte e nella vita– è ancora possibile anche di fronte a circostanze oppressive e apparentemente insormontabili. Questo è da sempre il ruolo assegnato all’arte nei momenti bui, ma essa sopravvive sempre a qualsiasi rielaborazione e riaffermazione. Così come l’oscurità muta nella forma, lo stesso avviene per i nostri approcci.
A un certo punto, citi gli iperoggetti di Timothy Morton, termine con cui il filosofo indica oggetti distribuiti nello spazio e nel tempo in relazione agli umani, in cui includere la biosfera, i buchi neri e il sistema solare. Nella sua visione della “Età dell’Asimmetria”, nella quale siamo immersi, l’arte si traduce nel tentativo di trovare una sintonia con questi iperoggetti. Cosa significa l’arte per te?
Le mie idee e le mie intenzioni per la mia arte e gli elementi che in altre opere catturano il mio interesse cambiano costantemente. Al momento, sono particolarmente interessato a progetti che siano in grado di affrontare le questioni più complesse della nostra epoca, senza diventare preda della loro logica. In altre parole, l’arte deve essere trasformativa e deve lasciare che la narrazione della nostra comprensione – il modo in cui arriviamo a pensare – sia modificata dalla sua intercessione. In questo modo, l’arte cambia il mondo.
Agency, a cura di James Bridle, NOME Gallery, Berlino, 27.10 – 07.12.2018
Artisti: Morehshin Allahyari, Sophia Al-Maria, Ingrid Burrington, Navine G. Khan-Dossos, Constant Dullaart, Anna Ridler, and Suzanne Treister.
James Bridle, New Dark Age. Technology and the End of the Future, Verso, 2018
immagini: (cover 1 ) Agency, a cura di James Bridle, NOME Gallery, Berlin, poster (2) Sophia Al Maria, «The Limerent Object», 2016, video digitale proiettato verticalmente, colore, suono, courtesy l’ Artista e The Third Line (3) Ingrid Burrington, «Alchemy Studies», 2018, polvere di iPhone, cristalli, resina (4) Agency, NOME, 2018, exhibition view (Constant Dullaart, « PVA Composition», 2016 e Suzanne Treister, «The U.S. National Security Agency on Fire», 2010) (5) Agency, NOME, 2018, exhibition view (Navine G. Khan-Dossos, «Cascades V- VIII, 2015 w Anna Ridler, « Wikileaks: A Love Story», 2016) (6) Anna Ridler, « Wikileaks: A Love Story», 2016, carta, applicazione di realtà aumentata, courtesy dell’Artista (7) Morehshin Allahyari, «Huma and Talismans», 2016, scultura in resina nera stampata in 3D, Courtesy l’Artista Upfor Gallery