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Mauro Folci, Noia, 2009. Premio Terna 02 (categoria Megawatt)
Mauro Folci nasce a L’Aquila nel 1959. Vive a Roma, è docente di Arti Performative e di Scultura all’Accademia di Belle arti di Brera. «Le sue opere si compongono in maniera stratificata, come tele di ragno catturano elementi da mondi materiali e concettuali disparati e il termine operazioni è adatto a definire i suoi lavori perché la componente di azione processuale e performativa è spesso più presente rispetto a dei veri e propri oggetti compiuti. Tali operazioni processuali generano resti, opere residuali di un ragionamento intorno a figure concettuali come la noia, l’esaurimento o la potenza, per esempio. Folci però non ha scelto di esprimersi esclusivamente attraverso la performance: la sua modalità espressiva è eterogenea e si appropria di qualsiasi tecnica e possibilità creativa, l’importante è che senta che sia la più consona a ciò che vuole di volta in volta presentare». (Marta Roberti, dal libro Lavorare parlando. Parlare lavorando. Il linguaggio messo al lavoro nelle opere di Mauro Folci ). I suoi lavori sono stati presentati da gallerie e istituzioni come la Kunstverein di Francoforte, la Fondazione Baruchello, il Neue Kunstforum di Colonia, il PAN di Napoli, il Museo MAXXI di Roma, il SUPEC di Shanghai, il Centre Pompidou di Parigi, il Museo Nazionale Reina Sofia di Madrid, la Haus der Kulturen Der Welt di Berlino, la Biennale di Architettura di Venezia, il Museo di Castel dell’Ovo di Napoli, il Palazzo Belmonte Riso di Palermo, il Museo de Arte Moderna e Contemporanea Sofia Imber di Caracas.
Noia, l’opera che ha ricevuto il premio speciale comitato galleristi nel Premio Terna 02 per la categoria Megawatt, è una still tratta dall’omonimo video che vede contrapporsi, seduti ad un tavolo, un uomo e un leone, allegoria di un continuo alternarsi e confondersi di potenza e impotenza. «C’è distanza e tensione tra i due – racconta Mauro Folci – ma in una situazione assolutamente paritaria rimarcata dal gesticolare confidenziale delle mani e delle zampe che si sfiorano sul piano del tavolo. La postura mi venne suggerita dal San Gerolamo nello studio, bel quadro della metà del 400 di Antonio Colantonio esposto al museo di Capodimonte, dove il santo è intento a togliere una spina dalla zampa di un leone. Illuminati fiocamente dall’alto i due protagonisti si muovono appena, sono come incantati, sembrano incantati e incatenati proprio come avviene nello stato d’animo della noia profonda, quando, cioè, «ci» troviamo di colpo incantati e incatenati dalle cose del mondo che non ci dicono più nulla e dal tempo che cessa di scorrere» (Mauro Folci).
Quale è lo stato dell’arte oggi in Italia? Quale è il ruolo dell’artista nel sistema attuale dell’arte e della società?
Corre l’obbligo fare una premessa e cioè che non sono in nessuna misura dentro al sistema dell’arte, nessun mercato, nessuna galleria, nessun museo. È un dato oggettivo sebbene non sia propriamente esatto. Non lo è in considerazione del fatto, altrettanto oggettivo, che anche il pensiero e i gesti dell’arte più sovversivi sono grandemente funzionali al sistema di produzione di valore. Sono fuori dal sistema dell’arte e non di meno ne sono, mio malgrado, coinvolto. L’artista è l’incarnazione perfetta di ciò che Marx chiamava «sussunzione reale». La cooptazione alla logica strumentale e di accumulo è pressoché inevitabile, accade come fosse il corso naturale delle cose — basta guardare alle grandi kermesse dell’arte degli ultimi venti anni (non degli ultimi quattro) a Venezia, a Kassel, a Istanbul, ai grandi musei e alle fondazioni — per capire che il problema esiste; alla biennale di Venezia di quest’anno si parla di capitale e in quella di Istanbul ancora di artactivismo. Non conta l’intelligenza degli artisti e dei curatori, in questi dispositivi narrativi, in queste perfette macchine di produzione del consenso ogni voce ribelle partecipa, più di ogni altro discorso, a quella omologazione funzionale alla serializzazione senza la quale l’accumulo di capitale non sarebbe possibile. Crediamo di lavorare sul fuori testo ed invece siamo parte integrata del testo lineare, di più, l’arte partecipa da protagonista come fonte energetica rinnovabile a quella ipermetaforizzazione che Baudrillard metteva in luce nell’equazione eccesso di senso uguale morte di senso.
Il problema detto tutto d’un fiato, che Duchamp con la sua inoperosità e anartisticità aveva già individuato un secolo fa agli albori dell’epoca fordista, è che nella frenesia della competizione e dell’accumulo la classica separazione della sfera dell’agire comunicazione da quella dell’agire strumentale non esiste più, poiché, come è ormai evidente ai più, la logica strumentale ha fagocitato per intero l’universo comunicazionale degli affetti, del simbolico, del pensiero astratto.
Quando si parla di economia linguistica, o se si preferisce di semiocapitalismo, o ancora di capitalismo dell’attenzione o estetico, parliamo di un sistema di produzione che fa base sulla potenza performante dei corpi e del linguaggio. Il capitalismo mobilita e storicizza la natura performativa dell’animale umano, mobilita e storicizza per intero le facoltà specifiche, cose come il linguaggio, la memoria, gli affetti, il flatus vocis, e dunque se questo è il campo di battaglia tra un ancora umano e un non più umano, se è questo il livello dello scontro incardinato per intero sul biopolitico, va da sé che una riflessione sul senso del nostro operare artistico vada fatta.
Mi occupo da diversi anni della performance che oltretutto è materia che insegno in Accademia, ma ciò che è interessante non è la performance in quanto pratica artistica, piuttosto la performance che riflette sul performativo come invariante della natura umana. Ora all’interno del panorama concettuale in cui si ritiene l’arte essere il più sofisticato laboratorio di produzione di valore e di sfruttamento capitalistico, la performance senza dubbio rappresenta la punta più avanzata. Un esempio valga per tutti: la rivista Time del maggio di questo anno poneva tra le prime cento personalità più influenti al mondo la performer Marina Abramovic, che si è mostrata altrettanto brava nel gestire con piglio manageriale il proprio metodo (metodo Abramovic) che ha depositato come marchio protetto. Sembra un paradosso, la performance, ossia l’arte senza opera e senza legge per antonomasia, si fa metodo, maniera, disciplina scientifica, e dunque riproducibile come qualsiasi altra merce.
Premio Terna pubblicò, in una delle sue prime edizioni, una ricerca previsionale dello stato dell’arte dal 2010 al 2015. I risultati hanno aperto una finestra su quello che è agli effetti il panorama attuale. Tra questi, anche il fatto che la crisi avrebbe portato ad un superamento dell’assuefazione rispetto alle regole dominanti, oltre ad un maggiore impegno sociale dell’arte. È quello che sta accadendo davvero?
Mi pare di aver già dato risposta. Nell’economia estetica l’artista a qualsiasi livello è organico al sistema. Questa consapevolezza naturalmente pone una serie di problemi oltre quelli già accennati, vale la pena ricordare che le preoccupazioni dell’arte sono diverse da quelle dei conflitti sociali che l’iniqua distribuzione della ricchezza produce ed alimenta: i conflitti chiedono un più di diritti e di legalità, l’arte libera può anche pensare e praticare un meno di diritti e di legalità come forma di sottrazione alla normalizzazione dell’ordine narrativo costituito. Sono a fianco di chi lotta per il diritto alla casa o per una scuola e sanità migliore ma so che l’arte non ha messaggi da mandare. Per questo ci pensa la comunicazione.
Ricordi la tua partecipazione al Premio Terna? Stavi lavorando ad un progetto in particolare?
Sì, era Noia, un video di 3 minuti, camera fissa su un tavolo a cui siedono uno di fronte a l’altro, un uomo e un leone. Un tentativo di cogliere quell’analogia tra lo stordimento dell’animale e lo stato d’animo della noia che Heidegger mette in scena per sostenere il suo dasein a spese degli animali.
Heidegger parla di noia per capire cos’è mondo per l’essere umano e per farlo distingue l’ambiente dell’animale dal mondo umano. L’animale vive in un ambiente nel senso che non ha una relazione con degli enti in quanto tali, ma solo in quanto suoi disinibitori ossia come attivatori dei propri istinti specifici; le cose dunque gli sfuggono nella loro essenza. L’animale è stordito dall’ambiente, fa corpo unico con esso ed è spinto alla reazione da una molteplicità istintuale sempre all’opera. Per il filosofo l’animale è il nome generico per dire non umano, non fa distinzione che so io, tra il delfino e la zecca, è l’esatto contrario dell’Animot di Derrida, è la vittima sacrificale per dirla con l’Adorno della Dialettica dell’illuminismo su cui abbiamo costruito l’idea di umanità.
Al contrario l’essere umano così carente di istinti specializzati capaci di far fronte all’ambiente naturale, possiede alcune facoltà che funzionano come fossero degli esoneri, il più potente dei quali è il linguaggio, che gli permettono da una parte di prendere distanze dall’indistinto della natura, dall’altra di vivere in un mondo, o meglio, per dirla con Heidegger, che gli permettono di costruire il mondo. Nello stato d’animo della noia però, all’uomo si rivela un rapporto con il mondo che è vicino a quello dell’animale con l’ambiente. Ciò che succede nello stato d’animo della noia è che l’ente, cioè il mondo in quanto tale svanisce, si ritrae, non ha più nulla da dirci e ci lascia vuoti, e al contempo siamo tenuti in sospeso dal tempo che cessa di scorrere, sospesi dal venir meno della durata che scandisce il ritmo del nostro agire. La noia è tutta dentro la dimensione del tempo e se gli enti non ci dicono nulla è perché le cose hanno un loro tempo e fuori da esso non si danno a vedere. Il tempo ci incanta e incatena nella sua disarticolazione ma è proprio in questa condizione di inattività che ci rinfaccia tutte le possibilità che giacciono inutilizzate in noi. Per questo si può ritenere che lo stato d’animo della noia esprima al massimo il concetto di potenza tanto che Heidegger parla di ultrapotenza. È giusto ricordare che un secolo prima Leopardi aveva detto una cosa simile a proposito della noia come potenza, quando da qualche parte nelle Operette Morali dice che la noia è il desiderio di felicità lasciato allo stato puro.
A dispetto della forma, Noia apre al discorso politico ma non lo fa passando per i temi cari all’artactivismo, ma transitando per le vie delle passioni, per ciò da cui la nostra natura è affetta e da lì mostra e argomenta il livello di alienazione di quelle invarianti su cui da sempre si sono basati i rapporti tra gli umani. Parlare di noia vuol dire parlare di cosa è potente in un corpo, è l’etica Spinoziana per cui il problema non è cosa deve ma cosa può un corpo sia nella parte intensiva delle passioni che in quella estensiva dell’azione. Questa è politica.
In quale direzione si è evoluta la tua ricerca più recente? Ci puoi anticipare progetti e prospettive future?
L’ambito discorsivo non cambia, ragiono sulle forme di vita possibili dentro e fuori dal paradigma neoliberista, penso a forme di esodo possibili dalla schiavitù del lavoro permanente. Tutte, compreso il suicidio e la dichiarazione di fallimento. Non un’opera di denuncia o di rivendicazione, ma di verificazione di costrutti concettuali e immaginifici a partire da ciò che patiamo come passioni tristi e da ciò che avvertiamo estensivo della nostra potenza d’agire. Su questa strada si fanno buoni incontri: Beckett, Melville, Kafka, Dostoevskij, Bataille, Artaud, Duchamp, Dick… metà firmamento dell’arte, della filosofia e della letteratura.
Quando è importante la ricerca pura per un artista?
Capisco la domanda, direi che contiene una illogicità in quanto, dobbiamo credere, un artista fa ricerca pura sempre a prescindere dal consenso di pubblico e di mercato che l’opera riscuote, se non c’è ricerca del fondo, disinteressata e inoperosa vuol dire semplicemente che si tratta di altro.
Come le istituzioni, pubbliche e private, potrebbero facilitare lo scambio inter-disciplinare?
Con un reddito di cittadinanza universale di 2.500 euro mensili.
Cosa dovrebbe avere (che ancora non ha) l’Italia a sostegno della creatività per rendere il nostro paese sempre più competitivo a livello internazionale? E quale paese, su scala globale, ritieni sia il migliore da questo punto di vista?
Con un reddito di cittadinanza universale di 2.500 euro mensili e sostituire dall’immaginario collettivo la parola competizione con cooperazione.
Cosa ha rappresentato, e cosa rappresenta oggi per un artista il Premio Terna nel panorama Italiano e in quello internazionale?
È una iniziativa senz’altro lodevole, di esempio e di stimolo per altri soggetti pubblici e produttivi a proseguire su questa via. Non ho seguito bene l’evoluzione del Premio, tuttavia mi pare che le prime edizioni fossero maggiormente articolate e intense.
Terna è un’azienda che si occupa di trasmettere energia al Paese. Il suo impegno con Premio Terna si focalizza sulla trasmissione di energia all’arte e alla cultura e nella creazione di una rete di sostegno e sviluppo del talento. Ritieni la formula del Premio Terna ancora attuale per la promozione dell’arte? Hai qualche suggerimento da dare per la prossima edizione?
Terna non deve promuovere l’arte per la competizione, deve sostenere con maggiore generosità la ricerca libera dell’arte estendendo questo nobile impegno alla letteratura, alla musica, alla poesia e a tutte le arti effimere. Un simposio delle arti a cadenza biennale può aumentare l’interesse e l’attenzione sull’evento.
Immagini (1 cover – 2) Mauro Folci, Noia, 2009. Premio Terna 02 (categoria Megawatt) (3) Mauro Folci, Non è vero che non – Space4235, Genova 2014 (targa in ottone inciso) (4) Mauro Folci, Qual è la parola – (23 uomini piangono al Metropoliz) Roma 2014. performance (5) Mauro Folci, Cavallinità – Museo d’Arte Contemporanea Villa Croce, Genova 2013. performer Davide Lucchesi. (6) Mauro Folci, Esodo – still da video 2011 (7-8) Mauro Folci, L’Ameno Appena in tempo – Fondazione Baruchello 2003, Roma.