Per la sua ultima personale in Italia, prima del definitivo (categorico) ritorno a New York, Ryan Mendoza propone, negli spazi ABC di Bologna (in Via Farini, 30), Chromophobia, un nuovo entusiasmante progetto che accende la pittura e invita lo spettatore a leggere una terra, quella delle proprie origini, che si presenta sempre più «complessa, intrigante, abominevole». Partendo da una profonda rivisitazione della tecnica pittorica, Mendoza concepisce un percorso estetico che tende a rendere il colore irreale, immateriale e virtuale, per mostrare, così, una serie di figure fluttuanti, di esseri senza peso, di immagini, di ombre, di irresistibili sembianze.
AT / Un po’ di tempo fa mi dicevi che per te «la pittura è davvero una sostanza primitiva», un territorio antico, uno spazio attraverso il quale ritrovare uno stretto contatto con il mondo della vita, con «la magia della realtà». Sei ancora di questo parere?
RM / Ho detto che la pittura era primitiva? Volevo dire che la pittura è low-tech. La pittura è un qualsiasi liquido da poter spargere su di una superficie. Questo include anche l’inchiostro. Scrivere è come dipingere. I libri sono quadri in bianco e nero. La pittura è fondamentale, tanto da aver influenzato l’evoluzione del linguaggio. La pittura rende l’uomo tridimensionale. Non dimentichiamoci che le prime lettere mai realizzate dall’uomo erano semplici disegni. Quando scrivo, ogni «A» che digito sulla tastiera del computer discende da pitture rupestri. «A» sta per alfa, l’inizio di tutte le cose e «A» è per le Antlers della Antelope, cibo caldo su una lastra di pietra, due ossa che puntano verso il cielo. Oggi 100,000 anni dopo l’origine del linguaggio, dove siamo arrivati? Gli artisti del mondo non dipingono più nelle caverne. Oggi se ti definisci un artista, significa che sei un cantante pop. Se non ci fossero stati pittori, sciamani, alti sacerdoti, non ci sarebbe stata nessuna trascrizione del linguaggio. Senza i pittori, non ci sarebbe stato il formidabile progresso della matematica, né l’ evoluzione del linguaggio, né i computer. Saremmo più come i delfini. Oppure: qual è la differenza tra l’uomo e l’ape? Risposta: le api non dipingono. Ada Lovelace, la prima programmatrice di computer, amava dipingere, concepiva il suo programma un dipinto in bianco e nero, trattava lettere, simboli e i numeri come se fossero pitture. Anticipatrice della fotografia digitale di almeno cen’tanni, soleva dire ai suoi studenti. Diceva sempre ai suoi studenti che se avessero fotografato digitalmente una pittura, sarebbero stati in grado di leggerlo come codice numerico. Anticipava così la fotografia digitale di circa cento anni. La programmazione dei computer è il discendente evolutivo di una pittura straordinariamente raffinata. Le innovazioni della tecnologia sono frutto di una ricerca artistica, risultato di una ricerca pittorica del miracoloso. Quel sentimento ancestrale, il voodoo delle pitture rupestri di bisonti e alci, e più tardi, dei dipinti di chiesa – la ricerca della verità, di una soluzione mentre si è a caccia di qualcosa, un dio, una donna, o un pasto, trova il suo proseguimento sui nostri computer portatili. E mentre il nostro modo di dipingere, di creare un significato, nel suo evolversi, nel suo divenire sempre meno riconoscibile e sempre più etereo, più sottile, virtuale, così insito in noi da prendere il sopravvento, io pretendo che nulla di tutto questo stia accadendo e preparo una nuova tela bianca.
AT / A differenza delle opere che popolano le tue ultime personali – penso a The Possessed (2010) e a While You Were Away (2012) – questa volta siamo di fronte ad una tavolozza cromatica che si illumina, si fa irrequieta, dinamica, energica. Cosa rappresenta, nel tuo percorso, questa ritrovata vivacità cromatica?
RM / Ho iniziato a dipingere accostando i colori solo due a due. Una pittura, due colori. Al mio insegnante questo tipo di approccio alla tecnica pittorica non piaceva affatto. Ma io non riuscivo a usare più di due colori. Così ho continuato a dipingere su di una stessa tela utilizzando solo due tonalità di colore. Sul dipinto si sono sovrapposti più di 30 cm di colore. E’ in questo modo che ho esercitato le mie scale visive. La mia insegnante veniva a farmi visita nel mio piccolo studio molto di rado; quando veniva, mi faceva una reprimenda per aver scelto di lavorare solo con due tonalità base di colore, per aver limitato la mia tavolozza alle sole scale di grigio, molto vicino al bianco. Mi avvisava che tutto il lavoro che stavo facendo era quasi invisibile.
Le ho assicurato che avevo bisogno di tempo per ottenere la vitalità giusta. «Hai paura del colore», mi diceva scherzando. «Mi permetta di prendermi il mio tempo», la supplicavo io. Estrasse un po’ di rosso cadmio e mi mostrò cosa si poteva fare con esso. «La prego non mi metta fretta». «Togli i tappi e spremi i tubetti signor Mendoza». «Oh, questo non può aspettare? Non ho esperienza nel portare i colori uno nell’altro.» «Usi le dita, afferri il pennello, più grande è meglio è, e io vi mostrerò che cosa state perdendo!»
AT Questi ultimi lavori mostrano uno scenario fantastico e a tratti surreale che mira a far apparire le figure e contemporaneamente a dileguarle sulla superficie. Sembrano ombre, sembianze, fantasmi che ritornano alla memoria come abbagli, visioni fulminee.
RM / Ci sono momenti in cui si cammina di traverso, attraverso ciò che si vede. Le pareti gocciolano, il pavimento si trasforma in cioccolato. Nubi del cielo possono essere mangiate come zucchero filato. Le braccia del suo amante si trasformano in cuscini; cuscini in lingerie. Questa è la casa in cui mi sono trasferito. A volte mi lascia giocare la partita. A volte mi rende troppo sazio e devo dormire per smaltire l’eccesso. Ma io guardo le crepe nei muri, sfilo via la carta da parati, infilo il dito nell’insenatura, laddove la piegatura della carta mi concede di dare una sbirciatina. Esiste un modo di vedere il mondo, come se si fosse sotto effetto di droghe. Astinenza o eccesso, scegliete voi, io vi consiglio una via di mezzo.
Rafael Mendoza. Chromophobia, ABC Gallery, Via Farini 30, Bologna
Immagini
(1cover) Ryan Mendoza, Goodbye Mendoza,Chromophobia,installat