Nella torrida estate romana, fino al termine di luglio, è possibile visitare due mostre estremamente differenti l’una dall’altra, che racchiudono, però, entrambe, il potere terapeutico della pittura e più specificatamente dell’autoritratto. A ospitarle sono la Galleria Locarn O’Neill di Vicolo dei Catinari e la Galleria Richter di Vicolo del Curato. Due white cube nascosti tra le stradine romane, separati da poco meno di 15 minuti di camminata, Campo dei Fiori dominata dallo sguardo bronzeo e austero di Giordano Bruno e il burrascoso guado di Corso Vittorio Emanuele II.
Alla Locarn O’Neill la mostra si intitola You Should Have Saved Me ed è una personale della celebre artista inglese Tracey Emin, alla Galleria Richter, invece la mostra si intitola Alica ed è una personale di Andrej Dubravsky, artista slovacco giovane ed affermato.
Emin, salita alla ribalta nell’ondata artistica britannica degli anni ’90, caratterizzata da opere scandalose e shockanti, mantiene nella pittura una certa carica sovversiva e un animo costantemente in tumulto. Le opere esposte, estremamente espressive, di una gestualità esasperata, compiuta a pennello pregno di colore a volte, a pennello scarico altre, rimandano a vari maestri della storia dell’arte: Egon Schiele con la sua pittura intima e grottesca, Cy Twombly con i suoi scarabocchi, Edvard Munch con un certo tipo di cupezza interiore.
Dubravsky, dopo una serie di lavori incentrati sulle questioni ambientali e sociali, affermazione dell’“artista-guida” beuysiano, che produce riflessioni con il fine di migliorare l’esistente, si racchiude in se stesso, nell’intimità del rapporto con i suoi gatti, “Alica” è titolo della mostra ma anche nome della sua gatta scomparsa. La sua pittura, di un espressionismo elegante, con i suoi colori innaturali che divengono stati d’animo e quelle sfumature così acquose a volte, così impossibili altre, nella rigidità materica del colore, vanno a creare un’atmosfera rarefatta e segreta. Essa va ad inserirsi nella tradizionale reazione pittorica alla realtà, in quei “fotogrammi ad acrilico” che racchiudono una profondità straniante.
Le opere di Emin raccontano, attraverso la figura femminile in agonia, la sua lotta contro il cancro. Mostra la sua vulnerabilità ed il suo dolore in tutta la sua cruda essenza. I suoi segni si trasformano in grafia dell’esistenza, o meglio, di una sua terribile parte. Davanti a noi si mostra l’essenza del corpo malato, indifeso ma combattivo, nell’immagine della sua impressione e nel gesto pittorico rivelatore di un’energia rabbiosa e indomita, reazione assoluta al nefasto.
Le opere di Dubravsky, invece, sono un requiem, un tributo doloroso alla scomparsa della sua gatta Alica, che in un transfert diviene tributo doloroso ad una vita pre-bellica spensierata (l’artista ha base a Bratislava, che seppur lontana dal fronte ucraino si trova comunque in uno Stato di confine con il Paese in guerra). I soggetti, costantemente tradotti nell’atto pittorico, abbandonano l’oggettuale per divenire essenziale di un carattere, di uno stato d’animo, di un’interiorità. Leggiamo nel testo che presenta la mostra: “Nonostante la sua volontà Dubravsky appare, nei suoi autoritratti, ansioso, mentre i gatti dipinti sono allegri e questa miscela crea nello spettatore una sorta di ambiguità”, ma l’ambiguità certamente presente nei quadri è intrinseca nel gatto, in ciò che esso culturalmente rappresenta e naturalmente è. L’artista, nei quadri, acquista la stessa ambiguità dei suoi felini, pur restando ancorato alla sua natura umana e saturnina.
Ma questo è solo un lato della medaglia delle due mostre, perché, in entrambe, il dramma si risvolta in un sentimento positivo.
In Emin, nell’atto pittorico, all’introspezione si affianca la comunicazione. I suoi autoritratti scabri divengono potenziali ritratti di ogni donna che sta vivendo un malessere, presa di coscienza di una condizione a cui è possibile reagire, reazione ad uno stato delle cose cupo di-mostrato attraverso la gestualità del pennello. Tra le tante tele raffiguranti Emin così come potenzialmente ogni donna-artista-malata (tutte figure concettualmente accomunate dal tema del sacrificio), scorgiamo, a potenziare questo concetto, una crocifissione, l’opera più rassicurante dell’esposizione per un pubblico culturalmente occidentale.
È evidente che Dubravsky mostra le qualità terapeutiche dei suoi animali domestici, un’ancora di salvataggio nella caotica e assurda realtà contemporanea che si fa realtà interiore, caricata in potenza, per via del conflitto russo-ucraino, nell’Est europeo. Nei suoi occhi ci appare una sfumatura di profondo dramma umano, una cupezza grunge, un dramma assente nei suoi gatti, tenuti in ogni opera in braccio, in stretta relazione con lui. L’occhio felino, sornione, spiritato o sicuro, è nella composizione sempre in primo piano rispetto alla raffigurazione dei suoi occhi, ne è il punctum, la forza vitale di un ragionamento intimo altrimenti sull’orlo del baratro.
L’autoritratto è, dalla sua comparsa nell’orizzonte artistico, la sostanza delle proprietà intellettuali dell’artista. In questi due casi (di artisti che vivono a centinaia di kilometri, ora separati da 3-4 stradine romane) veicola sensazioni e rivoluzioni della disgrazia umana, ne è forma e concetto, e proprio in quest’ultimo risiede la luce, la presa di coscienza che ci si trova comunque davanti ad una situazione a cui non è mai precluso il potenziale cambiamento.
Tracy Emin, Lorcan O’Neill, Roma, 13.05 – 29.07.2023
Andrej Dubravsky, Richter Gallery, Roma, 30.05-28.07.2023
immagini: (cover 1) Andrej Dubravsky, Alica (2) Andrej Dúbravský, Alica, Installation View, ph. Credit Giorgio Benni (3) Tracey Emin, You Should Have Saved Me (4) Tracey Emin, You Should Have Saved Me (5) Tracey Emin, You Should Have Saved Me, Installation view (5) Andrej Dubravsky, Bathroom mirror at 3am, acrylic on canvas, su tela, 2023, ph. Giorgio Benni