A seguire la pubblicazione della prima parte di una riflessione del rapporto tra arte e musica, con particolare attenzione alla ricerca di arti visive/musicali portato avanti con la programmazione di Villa Medici a Roma, Elena Giulia Abbiatici prosegue il suo racconto attraverso il dialogo con alcuni artisti, vincitori – in periodo diversi – di una residenza all’Accademia di Francia.
Nell’ambito della prima parte a rispondere della sua esperienza personale è stato Malik Mezzandri, compositore – jazz man e pensionnaire di Villa Medici nel 2010. Il racconto prosegue con l’intervento di altri due interlocutori: Francesco Filidei, organista e compositore, Raffaele Grimaldi, compositore, pianista e direttore d’orchestra, pensionnaires a Villa Medici rispettivamente nel 2012 e nel 2015.
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EA Cosa può rappresentare per un compositore contemporaneo un periodo di soggiorno a Roma, a Villa Medici?
FF Villa Medici per me è stata una esperienza straordinaria, un po’ beffarda ed amara da italiano che per tornare in patria deve passare dalla Francia. I primi mesi della mia residenza sono probabilmente stati i più «perfetti» della mia vita. Mi sembrava di non poter andare oltre in quel che si può desiderare (tranne nei weekend quando le discoteche intorno ti facevano capire che eri in una bolla di sapone pronta ad essere inquinata). Ci ho messo del tempo per poter cominciare a lavorare, abbacinato da tanta storia e bellezza, ed alla fine dei conti penso che per un compositore sia meglio immergersi nella storia del posto e negli incontri che vi si possono fare, e poi lavorare in seguito, altrove.
Come il contesto della villa ha influenzato la scrittura musicale? Vivete a Parigi da lungo tempo, secondo voi di cosa ha bisogno Roma a livello musicale?
FF Roma a livello musicale non ha bisogno di nulla. Sarebbe inutile. La meritocrazia non esiste, la voglia di fare qualcosa che comporti uno sforzo intellettuale per gioire è meno di zero. La musica va cercata in paesi più freddi e precisi, la Germania in primis.
RG In modo trasversale. La presenza di artisti di varia provenienza, sia culturale che geografica, ha permesso al mio modo di pensare la musica di evolversi verso spazi espressivi differenti. Sono stato particolarmente influenzato dalla poeticità descrittiva degli scrittori e dalla sorprendente capacità di artisti visivi, come fotografi o video artisti, di vedere forme in sintonia con luce e ombra.
Quali solo quelle due/tre figure che Berlioz identificava come eccezionali e che avete trovato a Roma? Siete riusciti a creare delle relazioni con alcuni musicisti, pensatori interessanti, …- sapendo che Roma è abbastanza sterile per la produzione musicale?
FF A Roma non so che figure abbia trovato Berlioz. Io ho conosciuto personalmente Balestrini, Rezza e Kounellis. Poi, beh, per il passato c’è una caterva di artisti impressionante.
RG Effettivamente non ho trovato molto terreno fertile per eventuali relazioni o collaborazioni. Ma non credo sia colpa di Roma, è colpa dell’intero sistema Italia che non consente agli artisti in generale, non solo musicisti, di poter trovare la giusta serenità per affrontare un lavoro così duro. Di conseguenza anche la curiosità, che dovrebbe essere naturale per chi fa questo mestiere, va progressivamente scemando. Ho avuto comunque possibilità di collaborare con altri artisti francesi in residenza, e per me questa è stata una enorme ricchezza.
Come intendete la musica e la sua integrazione con le arti visive?
FF La musica non è che arte nel tempo, non è questione di suoni. Poi, i più giovani e svegli compositori ormai sono sempre più nell’installazione.
RG Anticamente per «mousiké» si intendeva l’unione di più arti, ognuna al servizio dell’altra. Attraverso il progresso e i cambiamenti dovuti ad una diversa sensibilità lungo le epoche, le arti hanno subito gradualmente un distacco fra di esse, giungendo ad una sorta di indipendenza espressiva.
La musica è una disciplina che da sola regge il peso espressivo che porta insito dentro di sé. Benché spesso la musica venga considerata e trattata come un elemento a parte o addirittura isolato, da oramai molti anni, grazie alla sperimentazione e alla commistione di generi, ha mutato il proprio rapporto con le arti visive senza mai cessare di esplorarsi e influenzarsi a vicenda.
Personalmente penso che oggi l’arte visiva o l’immagine in generale sia predominante sul resto. Il primato non è dovuto solamente all’apporto delle nuove tecnologie o ai fenomeni di marketing. Prima ancora della consacrazione della nostra società come «dell’immagine», il primato del visivo si spiega grazie alla percezione dell’essere umano in rapporto al mondo: inversamente all’immagine, alla pittura o alla scultura, che offrono una stabilità spazio-temporale, la musica è instabile, in movimento, senza lasciare appigli a chi vi si avvicina. Un’opera visiva per essere fruita non ha bisogno di enormi sforzi di memoria, al contrario la musica necessita di un lavoro molto più complesso nel processo di assimilazione. Questo perché l’immagine è il riflesso di una realtà, mentre la musica non ne è che un’evocazione piuttosto approssimativa. L’una apporta ciò che non possiede l’altra.
Molto probabilmente è per tale ragione che la storia dell’arte oscilla incessantemente fra la rappresentazione visuale della musica e l’espressione sonora dell’immagine. Malgrado tutto penso che l’aspetto sonoro sia fondamentale al pari dell’aspetto visivo, in quanto amplifica e talvolta esprime ciò che le immagini da sole non permetterebbero di fare. Di considerabile importanza sono nuovi fattori che hanno fatto irruzione nel nostro quotidiano sotto forme inedite: la telefonia mobile, i video games, internet e l’informatica in generale hanno generato nuovi supporti, nuove logiche economiche e di marketing, e di conseguenza nuove forme di creazione in relazione all’aspetto visivo.