Arshake rilancia un’intervista di Eva Kekou a William Latham, computer artist inglese, conosciuto nel mondo per essere stato iniziatore della Organic Art. Il suo ripercorrere la sua esperienza tra ricerca e industria tornando indietro alla pionieristica residenza artistica presso l’IBM negli anni ’80, offre spunti di riflessione molteplici e colloca nel tempo le sperimentazioni più attuali. L’intervista è comparsa su 4 Humanities nel febbraio 2013, qualche tempo prima dell’inaugurazione del Phoenix Birghton Festival a cui si accenna nel discorso in una delle risposte. Nell’ambito del festival è stata presentato un simposio interamente dedicato al lavoro di Latham e la mostra MUTATOR 1+2, organizzati dall’artista con il curatore Sue Golllifer .
Eva Kekou: Ciao William! Che cosa ti ha spinto verso il mondo dell’informatica?
William Latham: In gran parte è stato dovuto al fatto di aver lavorato con uno stile costruttivista russo tipicamente geometrico, e all’aver prodotto, quando avevo vent’anni, un film d’animazione con disegni eseguiti a mano utilizzando la prospettiva a tre punti di fuga. Dovevamo realizzare film con una frequenza di proiezione di 25 disegni a mano per secondo, e questo lavoro enorme ci ha spinto a individuare uno strumento che ci potesse aiutare. All’inizio ho usato il Fortran 77 presso il Dipartimento di Informatica dell’Università di Oxford. Così ho imparato molto presto a capire cosa il computer poteva e cosa non poteva fare. Il risultato è, secondo il mio punto di vista, che le possibilità non sono cambiate molto rispetto al 1982
EK: Ci puoi raccontare della tua esperienza come artista residente all’IBM negli anni ‘80?
WL: E’ stato un periodo davvero esaltante. In quegli anni, i computer erano lenti, e per poter essere in grado di fare qualcosa di veramente interessante era necessario lavorare in un ambiente aziendale, sugli elaboratori centrali. In quel periodo, IBM stava riscuotendo un grande successo e sosteneva molti progetti di ricerca innovativa; collaborava con Mandelbrot, Alan Norton, Richard Voss, e io mi sentivo parte di quella comunità. Contemporaneamente, Karl Sims era alla Thinking Machines e Yoichiro Kawaguchi disponeva di un supporto commerciale in Giappone; è stato un momento molto esaltante, dove arte e scienza trovavano il supporto delle aziende e l’innovazione alimentava il progresso tecnologico. Il mio stipendio era poi molto buono per essere quello di un artista, e l’azienda sponsorizzava anche tutte le mie esibizioni in giro per il mondo, nel Regno Unito, in Germania, Giappone e Australia. E’ stato quindi un periodo bellissimo per me come artista. Un’altra cosa di minore importanza, pera che lavorare all’IBM significava poter usufruire dell’email, cosa all’epoca molto poco diffusa.
EK: Collabori con il matematico Stephen Todd – puoi dirci cosa significa questo in termini pratici?
WL: Collaboro con Stephen da molto tempo (e ora anche con suo figlio Peter),precisamente dal 1987, fatta eccezione per un intervallo di circa 12 anni in cui sono stato risucchiato dal mondo della produzione dei videogiochi. Tutto è iniziato quando a Stephen ha visto i miei disegni evolutivi FormSynth, con cui che delineavano un sistema evolutivo per la crescita di forme complesse. «Dovremmo trasformarlo in un software» – mi disse. Ne è scaturita così una sinergia tra un matematico e un artista, entrambi eravamo molto creativi. Io, come artista, contribuivo con una visione ricca di immaginazione, e con un certo intuito per l’aspetto pubblicitario.
EK: Puoi raccontarci degli algoritmi che usi per sviluppare i tuoi progetti?
WL: Questo è un argomento molto vasto! Le linee guida della logica algoritmica principale che utilizziamo oggi sono descritti nel libro Evolutionary Art and Computers che Stephen e io abbiamo scritto molti anni fa. C’è anche un buon saggio, Evomusart, che abbiamo realizzato un paio di anni fa nell’ambito del lavoro Bioinformatics realizzato con l’Imperial College.
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EK: Hai anche lavorato nell’industria dei videogiochi. Quale impatto ha avuto questa esperienza sul tuo lavoro artistico, e viceversa?
WL: Direi che una cosa che ho imparato riguarda le capacità organizzative, come costituire team di software che sia in grado di realizzare prodotti e come negoziare contratti importanti. Sto iniziando proprio ora ad utilizzare queste capacità nell’arte. Il Phoenix Show, supportato dall’Arts Council England, è stato uno dei miei primi tentativi nell’impiego di queste competenze nel campo dell’arte, che spero di poter utilizzare molte altre volte in futuro.
Credo che la cosa più importante che ho imparato durante la mia esperienza con i videogiochi è aver capito la differenza tra arte e intrattenimento e che non è possibile realizzare contemporaneamente questi due obiettivi. Uno degli aspetti positivi nel far parte dell’industria dell’intrattenimento è che esiste un chiaro metro di valutazione per stabilire se un progetto ha avuto successo, se qualcosa vende oppure no, e il lavoro di ognuno è rivolto a massimizzare il valore del prodotto. Nell’arte è tutto più sottile, più vago e misterioso, soggetto alle correnti della critica e della moda del momento, cosa che può essere a volte frustrante.
EK: So che sei tornato al mondo accademico dopo tredici anni. Quali input puoi fornire all’accademia dalla tua precedente esperienza e dal tuo impegno di artista?
WL: Direi che la mia esperienza è molto ampia, e spazia da un contesto tipicamente commerciale all’arte pura. Ho imparato che mettere insieme degli artisti con un team di programmatori e matematici all’interno di un contesto di ricerca produce risultati estremamente interessanti e può fungere da catalizzatore per una reale innovazione. Poi, occorre che questo si traduca rapidamente in prototipo per poter massimizzare i risultati.
EK: Dicci qualcosa sul Phoenix Brighton festival. Quali sono gli obiettivi dell’evento?
WL: L’obiettivo della mostra è quello di mostrare un ampio spettro di produzione e di collaboratori: dai miei primi disegni in prospettiva per i film animati, ai disegni a mano realizzati con FormSynth all’RCA, fino al lavoro all’IBM negli anni dal 1987 al 1993. Si arriva poi al 2007, quando ero impiegato come docente alla Goldsmiths University, con il lavoro incrociato svolto in collaborazione con l’Imperial College nel campo della bioinformatica, oltra ad altri progetti artistici e scientifici. Per finire, un progetto realizzato molto più recentemente su vasta scala, che occupa un’intera sala: si tratta di Mutator2 Triptych, sviluppato l’anno scorso. La mia priorità è quella di riuscire a mostrare la storia del lavoro. Inoltre, ho realizzato una grande immagine disegnata a mano direttamente sulla parete della galleria, che serve da punto di ingresso alla mostra. (E’ stato bellissimo disegnare di nuovo!).
Questa intervista è originariamente apparsa su 4Humanities il 12.02.2013 ed è qui tradotta e ripubblicata con il permesso del suo autore.
Immagini
(1 cover) William Latham- Mutation raytracm, 1992 (2) Goldsmiths- Digital Studios,2007 (3)William Latham, flower (4) William Latham – Black Crystal Etching (detail). William Latham, FormSynth, 1985