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Home exhibitions

Yinka Shonibare. Un ballo in maschera

Tra Béla Tarr e Bertolt Brecht. Focus sul lavoro di Shonibare nell'ambito della mostra CRAZY: La follia nell’arte contemporanea al Chiostro del Bramante a Roma

Fabio Giagnacovo by Fabio Giagnacovo
02/04/2022
in exhibitions, Focus
Yinka Shonibare. Un ballo in maschera

È attraente ricollegare le opere, molte ambientali, presenti nella mostra CRAZY: La follia nell’arte contemporanea – a cura di Danilo Eccher, negli spazi del Chiostro del Bramante, a Roma, fino all’8 gennaio 2023 – al tema dell’esposizione e ai legami psicologici e percettivi che riescono a sostenere, in modo sempre diverso, con l’esperienza assoluta della visita.

Così, tra operazioni postmoderne spettacolari e mimetiche, ambienti che tendono più spiccatamente all’intimità e al concetto e pietre miliari dell’environment, ci troviamo davanti l’opera video di Yinka Shonibare, artista anglo-nigeriano classe 1962, dal titolo Un ballo in maschera (A masked ball) (2004), un unicum dell’intera esposizione, sia in termini relativi – al medium, alla modalità di fruizione, al soggetto – sia in termini incondizionati.

L’opera video sfuma profondamente nella follia, nel concetto di personalità e di relatività, ma ciò che la lega con leggerezza al tema ordinatore della mostra è anche ciò che avrebbe potuto legare ad esso un qualunque film di Ėjzenštejn, o meglio ancora, come vedremo, un qualunque film di Tarr. Ci sono, dunque, due livelli concettuali che tendono al visitatore dell’esposizione, e in entrambi, in modo diverso, la natura spazio-temporale dell’opera gioca un ruolo fondamentale.

L’ambiente dell’opera si divide in due parti: inizialmente ci troviamo innanzi a degli abiti montati su manichini, caratteristici della poetica dell’artista, che ricordano quelli utilizzati nelle corti nordeuropee secoli fa se non fosse che i tessuti con cui sono composti hanno palesi rimandi agli abiti tipici africani – nonché al logo di Chanel – e l’opera effettiva, medio-metraggio dalla lunghezza di 32 minuti in cui questi abiti – e molti altri – sono indossati da attori silenziosi che mettono in scena una trama attraverso una danza straniante effettuata rigorosamente senza musica. L’affascinante quanto incredibile (non) sviluppo degli eventi dell’opera riprende l’omonima opera lirica di Giuseppe Verdi, rispolverando le intenzioni iniziali del compositore, senza le numerose modifiche dovute alla censura del periodo che hanno afflitto la maggior parte delle sue costruzioni teatrali.

Relativamente al medium, dunque, tra gli ambienti della mostra, che lasciano affascinati, con gli occhi sgranati e la bocca aperta, in questo caso ci troviamo difronte ad un atto politico, che richiede come ogni atto politico un’attenzione costante. È l’unica opera spiccatamente riflessiva dell’intera esperienza, seppur mascherata da costrutto dinamico, e questo anche grazie alle sue caratteristiche tecniche: è un video, vive di una simulazione spazio-temporale, in un altrove assurdo che non va solo guardato, ma vissuto nel transfert mistico dell’audiovisivo, nella magia dell’immagine fantastica in movimento che si fa pensiero fantastico in movimento e che espande la referenzialità, spesso piegata su se stessa, in coscienza del mondo.

Avvicinandoci, superando lo specchio mediale dello schermo, ci troviamo in un ballo in maschera postmoderno che vive in un melting pot assoluto, nella corte settecentesca di Gustavo III di Svezia. È il famoso ballo in maschera in cui il sovrano subì un attentato da tre uomini mascherati. Nell’opera vediamo il re danzare, successivamente essere sparato, cadere a terra simulando un mancamento nello sconcerto generale, rialzarsi e ricominciare a ballare. Il ciclo di eventi lo riviviamo per ben tre volte, sempre identico, per poi riviverlo altre tre volte al contrario, con suoni e video che si avviluppano a ritroso fino alla scena iniziale, che porta al termine del video, per poi ricominciare da campo.

Un uroboro che vive di montaggio, nel ciclo di cicli che si riproduce incessantemente. Il tempo cinematografico esasperato ed esasperante: cos’è se non questo la follia. Ma in questa esasperazione c’è un ordine: un’introduzione, la stessa storia ripetuta tre volte e poi ancora ripetuta tre volte al contrario e, infine, l’introduzione anch’essa al contrario. Come se fosse la struttura stessa del video una danza, quattro passi avanti e quattro indietro, riportando alla mente Satantango di Béla Tarr, il mastodontico film che sfiora le otto ore e che si sviluppa in dodici capitoli, i primi sei in avanti e i restanti sei in flashback, quindi indietro, come nel tango. Ma Un ballo in maschera (A masked ball) non progredisce mai, non va davvero avanti né tantomeno indietro, balla su sé stesso come i suoi personaggi, è visceralmente digitale, come una GIF: un «formato di interscambio» non «grafico», bensì esperienziale.

Questo è la sua parte più profonda, che travalica il postmodernismo audiovisivo ormai retrò per abbracciare lo zeitgeist digitale, che proprio agli albori del nuovo millennio ha iniziato ad imperare.

La sua natura riflessiva – e didattica – si basa anche sul superamento di quel neokitsch di fine ‘900, senza mai abolirlo, anzi sfruttandolo, per abbracciare un iper-straniamento di matrice brechtiana: in entrambi i casi c’è un palesamento della finzione, nel primo attraverso l’esagerazione e l’eccesso, nel secondo – in questo – attraverso l’eleganza della tecnica. Brecht portava lo spettatore a non identificarsi con gli attori della sua piece teatrale, Shonibare oltre a questo, tradotto nel mezzo audiovisivo, porta lo stesso strumento video a non identificarsi con la sua funzione. L’attore palesa il fatto che sta recitando allo stesso modo in cui il ballo in maschera palesa il fatto di essere una maschera, in uno spazio-tempo altro, che, dunque, non ha bisogno di alcuna fisica analogica per trovare senso.

L’essenza della contemporaneità vista con un mutato sguardo della vecchia e ormai storica macchina da presa. Un’opera allo stesso tempo ermetica e barocca, europea e africana, analogica e digitale, vera e falsa, legata al Tempo e totalmente scollegata da esso, in quella pura contraddizione che si fa senso dell’esistere contemporaneo. Pura follia eppure così carico di concreto, lineare, strutturato senso critico. L’opera di Shonibare è una perla nascosta in CRAZY, su cui vale la pena soffermarsi, contemplarla, regalarsi del tempo per godersela, per superare l’esistenza preconfezionata attraverso le maschere e gli abiti incoerenti, il medium e lo spazio-tempo che si trasforma in danza.

CRAZY: La follia nell’arte contemporanea,  a cura di Danilo Eccher, Chiostro del Bramante, Roma, 19.02 – 08.01.2023

immagini: (tutte) Yinka Shonibare, «Un ballo in maschera», fermo immagine da video

 

 

Tags: arsarshakeChiostro del BramanteCRAZY: La follia nell’arte contemporaneaDanilo EcchervideoYinka Shonibare
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