Alla fine degli anni Novanta si assiste ad un incremento d’interesse nei confronti dei nuovi media, si moltiplicano le riflessioni sull’impatto che essi hanno nella vita di tutti giorni e sul loro utilizzo in ambito artistico. Gli intellettuali di ogni campo decidono di confrontarsi con la tematica, spinti dalla diffusione sempre maggiore degli strumenti digitali, d’altronde in questa decade il boom delle vendite di questi ultimi costringe al confronto con una nuova realtà, non più interesse di pochi appassionati ma parte della vita quotidiana di molti. Questo interesse generalizzato si fa sentire in maniera ancora più pressante in un luogo come la California[1] dove prosperano sia la ricerca, lo sviluppo e la commercializzazione dei computer, nella Silicon Valley, sia la sottocultura hacker diffusa nella bay area di San Francisco, storica culla di culture alternative.
Proprio a San Francisco il mondo delle istituzioni, in date piuttosto precoci, si dimostra interessato alle nuove tecnologie e a quelle espressioni artistiche che di queste fanno uso. Il Museo d’arte moderna della città infatti (SFMOMA) crea il dipartimento di media arts nel 1987 e nel 2001 decide di ospitare una mostra intitolata 010101: Art in Technological Times organizzata dal team curatoriale del museo. 010101 si propone di essere una ricognizione delle forme in cui l’interazione con la tecnologia plasma la produzione artistica, intento ambizioso che forse per certi versi condanna questo tentativo ad essere congenitamente parziale. La mostra, fortemente voluta da David Ross, direttore del museo, e sponsorizzata dalla Intel, promette uno sguardo comprensivo sulle pratiche artistiche che fanno uso di tecnologie avanzate e riflettono sul rapporto che si instaura tra queste e l’uomo. Il titolo stesso, un gioco di parole tra il linguaggio binario e la data di inaugurazione della mostra (01/01/2001 appunto) costituisce una sorta di promessa allo spettatore che si aspetterà un alto grado di elementi high tech. Tuttavia l’uso di tecnologie è piuttosto ridotto in proporzione al numero di opere esposte. A causa forse della volontà di coinvolgere tutti i curatori del museo vengono incluse molte opere che è possibile far rientrare nelle tradizionali categorie di suddivisione delle espressioni artistiche (pittura, scultura, disegno), scelta che si pone in contraddizione con la tendenza riscontrabile nella porzione di arti mediali, in cui invece le distinzioni tra le discipline sembrano confondersi, tanto che definire alcune opere come lavori puramente di design, net art, musica, sembra impossibile. Si vedano per esempio quelli basati sul sonoro di Brian Eno oppure Ping, un’opera di Chris Chafe e Greg Niemeyer che traduce in suoni i movimenti online del traffico di dati di determinati siti internet[2].
Esiste un rischio implicito nella scelta di un tema come il rapporto tra arte e tecnologia. Infatti selezionando solo opere realizzate grazie all’uso della tecnologia si sarebbe rischiato di creare un’ennesima occasione di ghettizzare questo tipo di arte e definire come fosse un movimento o un genere quello che invece è uso comune di mezzi relativamente nuovi e peraltro spesso molto diversi tra loro. 010101 evita di cadere in questo errore proprio grazie all’ampia gamma di espressioni incluse, anche più tradizionali. Rimane comunque l’impressione di una scelta forzata dalla necessità o dalla volontà di coinvolgere tutti i dipartimenti del museo.
Nonostante alcuni difetti espositivi tuttavia 010101 costituisce un tentativo apprezzabile di fare il punto della situazione rispetto ad un contesto in evoluzione e che all’inizio del Duemila sembrava essere il punto di partenza per le principali ricerche future e raccoglie esempi molto diversi fra loro delle questioni che i nuovi mezzi fanno emergere o permettono di affrontare.
Alcune delle opere scelte ad esempio sfruttano chiaramente le possibilità che solo il digitale offre e mostrano come questo possa essere strumento per oltrepassare i confini dello spazio-tempo e superare, anche se solo virtualmente, le leggi della fisica che regolano il nostro universo. Corridor[3], un viaggio continuo all’interno di uno spazio banale ma senza fine, in un’architettura possibile solo nei meandri del virtuale è un caso evidente di come il video e la computer grafica permettano di forzare la rigidità di una struttura architettonica e manipolare allo stesso tempo la percezione che l’osservatore ha del fluire del tempo. Un’installazione come quella di Miyajima[4] invece immerge il fruitore nel liquido galleggiare di elementi senza peso.
All’interno dell’esposizione viene inoltre celebrata l’idea di una comunità globale legata dalla tecnologia, che abbatte le barriere che normalmente si frappongono tra le persone, e fa nascere comunità che esistono online e sono “not of common location, but of common interest, webs of human relationships linked in cyberspace”[5]. Questo avviene non solo tramite le opere che mostrano tale connessione a distanza ma anche grazie alla scelta degli artisti, provenienti da 13 paesi diversi non limitati all’area europea o statunitense, come spesso accade, e chiamati in causa proprio grazie alle tecnologie che fanno da minimo comune denominatore dell’operazione.
Una sezione della mostra poi si rivela particolarmente interessante. 010101 presenta infatti una parte di lavori realizzati solamente online[6] curata da Benjamin Weil, neoassunto direttore del dipartimento dei media del museo. Si tratta di cinque opere commissionate dal museo per l’occasione e accessibili solo autonomamente dai propri dispositivi. La scelta di non includere nell’esposizione degli schermi dai quali fruire le opere online pare volta a non snaturare il normale funzionamento di lavori del genere. Spesso infatti volendo rendere a tutti i costi più museale la cosiddetta net art si riduce drasticamente il suo potenziale e si arriva quasi a mascherarne il vero funzionamento.
La porzione online della mostra viene particolarmente valorizzata, a partire dall’inaugurazione che ufficialmente avviene solo sul web, durante l’orario di chiusura del museo, cioè a mezzanotte esatta del primo gennaio duemilauno. Una breve panoramica della mostra online curata da Weil è un buon modo per affrontare le questioni principali e le più interessanti poste da 010101, essendo impossibile in questa sede analizzare a fondo tutta la restante esposizione, di dimensioni piuttosto ampie.
Timelocator di Erik Adigard vuole essere una sorta di orologio in cui una grafica e dei movimenti che riprendono lo strumento analogico si mescolano a una visualizzazione dello scorrere del tempo realizzata tramite movimenti di immagini e link che riempiono lo schermo, confondono la navigazione normale e in definitiva riportano ad una percezione del passare dei secondi e dei minuti lontana dalla realtà. Il tempo della rete scorre in maniera diversa ma non solo, in rete si connettono zone temporali diverse, quella del navigatore e quella del server di riferimento, per esempio. La completa casualità dei link inseriti e l’arbitrarietà dei contenuti ad essi legati creano un senso di perdita di controllo sulle proprie azioni e portano a seguire dei percorsi non intenzionali attraverso l’intero globo.
Garden.Eden 1.0 di Entropy8Zuper! Prevede che il fruitore prenda il controllo dei due personaggi di Adamo ed Eva all’interno del giardino dell’eden, posizionandoli in scenari predefiniti e seguendo la narrazione mentre si svolge. In questo modo il pubblico è in grado di interagire con la linea narrativa e inserirsi in un contesto che lascia libertà relativa di azione. La grafica, i suoni, le finestre di dialogo si ispirano al mondo dei computer games reinterpretandone le regole in senso umoristico. Mark Napier per l’occasione crea Feed 1.0 con cui sovverte le regole della visualizzazione dei siti con il dichiarato scopo di creare un “caos esilarante” e al tempo stesso mostrare come funziona la gerarchia di una pagina generata da un codice, spogliandola quindi della facciata cui siamo abituati. The new place 2001 di Matthew Ritchie presenta una struttura più tradizionale, è per lo più composto di immagini e testi immobili, c’è poca animazione e un’interazione che rispetta le regole tradizionali della navigazione online. L’opera tuttavia rappresenta il punto di partenza per un più ampio lavoro che coinvolge molti media.
Infine e-poltergeist di Thomson e Craighead simula l’apparenza di un sito familiare come yahoo e ne rende l’esplorazione sempre più complessa e fuori controllo, come un poltergeist virtuale apre finestre di comunicazione e pop-up. Il lavoro, oltre a sottolineare come la comunicazione tramite internet abbia enfatizzato il concetto di delocalizzazione e confuso i termini di definizione spaziale e temporale, al tempo stesso riflette sul concetto di controllo e sorveglianza, su come ciò che non viene visto o percepito nella nostra navigazione influenza il nostro comportamento e il movimento di dati.
Certe caratteristiche proprie dei mezzi digitali: delocalizzazione, riproducibilità infinita, superamento delle barriere fisiche, tendenza alla globalità, discontinuità, influenza di discipline diverse e una natura effimera (molti dei siti realizzati sono quasi impossibili da navigare oggi e già all’epoca della realizzazione non erano accessibili a tutti i computer) sono al tempo stesso caratteristiche dei lavori stessi e motivo di riflessione cui le opere girano intorno, proprio perché la loro natura virtuale le rende particolarmente adatte ad esprimere tali concetti.
[1] In California d’altronde nasceva anche ARPANET, il progenitore di internet creato dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti.
[2] In questo caso la somiglianza è evidente con ciò che Holtzman racconta di aver fatto cercando di dare voce alla macchina-computer, con la differenza che Ping è studiata come intervento artistico, non solo come esperimento scientifico.
[3] Craig Kalpakjian, Corridor, animazione generata al computer, 1995.
[4] Tatsuo Miyajima, Floating Time, proiezione generata al computer, 2000.
[5] “Non di luoghi condivisi ma di interessi condivisi, reti di relazioni umane collegate nel cyberspazio” S. Holtzman, Digital mosaics. The Aesthetics of Cyberspace, Touchstone, New York, 1998, p. 32.
[6] Cfr. http://archv.sfmoma.org/media/exhibitions/010101/start.html