Arshake ha il piacere di pubblicare la prima di otto tappe del viaggio critico di Antonello Tolve che ripercorre i sentieri dell’arte tracciati dal difficile rapporto tra uomo e natura, in particolare sotto l’impeto dell’impatto tecnologico. Attraversando una serie di produzioni artistiche rivolte alla relazione tra uomo e ambiente, dalla Land Art alla Transgenetic art e al Bio Activism, ricostruisce il percorso che arriva ad una visione della natura assieme tecnica e umanistica.
Tra i disegni dell’arte che si manifestano nel quadro dell’orizzonte estetico attuale è possibile cogliere alcuni fenomeni creativi e alcuni indirizzi riflessivi segnati dalla forte inclinazione a ristabilire un nuovo contatto con la natura in tutte le sue varie coniugazioni e meraviglie. La mano incurante dell’uomo sull’ambiente, la storia dei cambiamenti climatici e le varie catastrofi che (oggi fortunatamente) addolorano il pubblico mediatico, hanno portato, infatti, non solo ad una sempre più urgente sensibilizzazione sociale e culturale nei confronti del pianeta, ma anche ad una immissione, nel capitolo dell’arte, di queste problematiche allarmanti, avvicinate dagli artisti per intraprendere intensi dibattiti pubblici, per proporre strategie di fuga dall’impasse del qualunquismo, per raccontare i pericoli di una situazione, per promuovere nuovi scenari possibili e per prendersi cura del luogo in cui l’intera umanità consuma la propria vita.
A queste pratiche di sensibilizzazione che nascono negli anni Sessanta del Novecento e che trovano nella soziale Plastik di Joseph Beuys (nella sua costante difesa della natura) un antecedente impareggiabile, un gruppo di artisti provenienti da generazioni più recenti sta dedicando molta attenzione con lo scopo di riconsiderare il rapporto tra uomo e natura filtrata, questa, da una visione assieme tecnica e umanistica (Gunnar Kvaran, ha parlato, recentemente, di un Technological Humanism)[1], mediante la quale la fonte naturale è ricreata, riplasmata, rigenerata da un nuovo creatore.
Se sul finire degli anni Sessanta e lungo l’arco degli anni Settanta, con la Land Art, esperienza creativa nata in America (il movimento si costituisce nel 1968) nell’ambito dell’arte concettuale[2], l’artista sposta il procedimento dalla bidimensionalità della superficie a un campo di lavoro che fa i conti con il mondo della vita per irrompere nell’intimità prospettica dell’immagine e intraprendere un discorso più ampio, in grado di modellare il panorama paesaggistico contemporaneo, oggi l’artista, spinto dalle conquiste tecno-scientifiche, ricostruisce il modello naturale – a volte fedelmente, altre fisicamente o emotivamente – per ripristinare la duchampiana critica alla rappresentazione (una rappresentazione che lascia il posto alla presentazione)[3], per adottare un punto di vista prospettico sul futuro del mondo (Virilio) e per far coincidere l’orizzonte naturale con quello culturale.
Antecedente storico di questo programma visivo è, appunto, l’esperienza della Land Art i cui artisti, impegnati a distaccarsi dalla figuratività dell’estetica pop o dalle strutture gelide del minimalismo, costruiscono un inedito rapporto dialogico con il disegno naturale per convertire il mondo in spazio dell’opera d’arte. Con la Land Art infatti l’artista mira a modificare l’habitat e a interagire con la natura per creare nuovi scenari naturali servendosi del paesaggio come superficie e come materiale su cui esercitare una tensione politica, sociale, ecologica. Le grandi installazioni prodotte dagli artisti americani di Earth Art o Earthworks (Long) collocate nei deserti degli Stati Uniti (e documentate tempestivamente dal gallerista tedesco Gerry Schum, che si pone all’attenzione internazionale con il suo film Land Art, 1969)[4] sono interventi monumentali, schiaffi estetici di protesta contro l’artificializzazione e la spietata commercializzazione dell’arte. Per spezzare le catene del potere finanziario e bypassare i circuiti ufficiali dei musei e delle gallerie, l’artista decide non a caso di sviluppare progetti paesaggistici monumentali, fuori dalla portata di eventuali trasporti tradizionali, e di avviare così approcci alternativi con la natura e con la sua sostenibilità[5].
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[1] G. B. Kvaran, Technological Humanism | Umanesimo Tecnologico, in Olafur Eliasson. colour memory and other informals shadows, Astrup Fearnley Museet for Modern Kunst, Oslo 2004; trad. it., Olafur Eliasson. colour memory and other informals shadows | la memoria del colore e altre ombre informali, Postmedia Books, Milano 2007, p. 76.
[2] Per un approfondimento sulla Land Art si rinvia almeno all’ampia panoramica offerta dal recente volume di W. Malpas, Land Art: A Complete Guide to Landscape, Environmental, Earthworks, Nature, Sculpture and Installation Art (Sculptors), Crescent Moon Publishing, London 2007.
[3] Per tale questione si veda l’indispensabile F. Menna, La linea analitica dell’arte moderna.Le figure e le icone, Einaudi, Torno 1975, e particolarmente il capitolo V in cui l’autore traccia la Critica della rappresentazione messa in campo dall’artista per «afferrare la realtà quasi nel momento in cui questa sta per sfuggire definitivamente alla presa del linguaggio», p. 44ss.
[4] Sulla singolare esperienza galleristica di Schum si veda almeno G. Schum, Ready to Shoot: Fernsehgalerie Gerry Schum – Videogalerie Schum, con interventi di B. von Bismarck, E. de Bruyn, J. Fernandes, U. Gross, Ch. Harrison, B. Hess, F. W. Heubach, U. Loock, J. Lebrero Stals, E. Lunghi, L. Morris, S. Page e U. Wevers, cat. della mostra itinerante organizzata alla Kunsthalle Düsseldorf (dal 14/12/2003 al 14/03/2004), al Casino Luxembourg – Forum für Zeitgenössische Kunst (dal 27/03 al 06/06/2004) e al Museu de Arte Contemporânea de Serralves, Porto (dal 23/07 al 10/10/2004), Kunsthalle Düsseldorf, Düsseldorf 2003.
[5] I cambiamenti di rotta sono avvertiti precocemente da Barbara Rose in una puntata dei suoi Problems of Criticism / IV The Politics of Art Part III, in «Artforum», vol. VII, no. 9, May 1969, p. 47: «That there is art that does not traffic in objects but in conceptions has both economic and political consequences. If no objects is produced, there is nothing to be traded on the commercial market. This obvious consequence defines at least part of the intention of current anti-formal tendences. The artist does not cooperate with the art market. Such non-cooperation can be seen as reflective of certain political attitudes. It is the aesthetic equivalent of the wholesale refusale of the young to partecipate in compromised situations (e.g., the Vietnam war)».