Lo spunto per questa intervista è stata la mostra di Invernomuto presentata qualche tempo fa all’Auditorium Parco della Musica di Roma, a cura di Anna Cestelli Guidi e Manuela Pacella. Il sesto appuntamento del ciclo espositivo della Fondazione Musica per Roma One Space / One Sound ha portato in visione e in ascolto i lavori del duo artistico formato da Simone Bertuzzi e Simone Trabucchi. L’installazione ambientale Wondo Genet, e l’opera Negus – Remembering a Night in Sasha richiamano una decisa attenzione al ruolo del suono e della stratificazione di temi, spunti storici e di racconti popolari che sono irradiati nei materiali video e nelle tracce musicali. Il suono è una parte costitutiva del lavoro, si apre nell’ambiente fisico dello spazio espositivo condensando di significato le parti visive, come avviene in Wondo Genet dove la presenza del suono diffuso dai sound system è vibrante e il fumo che avvolge la visione del video è un ulteriore mezzo simbolico.
Ogni elemento del ciclo Negus rimanda al vasto universo che gravita intorno a tre punti cardinali, le tre tappe del lavoro: Vernasca (luogo d’origine di Invernomuto), Etiopia e Giamaica. In particolare con il video del racconto di una notte vissuta nella comunità Rastafariana di Shashamane (Etiopia), si è indotti a cercare segni e codici per ricostruire una storia che assume fisionomie identitarie nuove. Il complesso progetto che da diversi anni impegna Invernomuto consiste in un ciclo di opere che ha origine dalla figura dell’ultimo Negus d’Etiopia, Haile Selassie I, dal colonialismo italiano e dalle tradizioni musicali giamaicane del reggae e del dub.
Non interessati a realizzare un’opera chiusa e definita, i due artisti attuano un processo di indagine che coinvolge discipline e linguaggi diversi, con soggetti tematici che diventano il fulcro del lavoro che crescono e si rendono realtà autonoma rispetto allo spunto originario. L’analisi artistica si amplia in un nucleo aperto di ricerca che è in continuo cambiamento. Epoche storiche e confini geografici sono punti di partenza ed elementi fondanti, che costituiscono il tracciato del lavoro audiovisivo come un tessuto simbolico e critico. Abbiamo chiesto ad Anna Cestelli Guidi e Manuela Pacella di parlarci della mostra e a Invernomuto di raccontarci il lavoro e i progetti futuri.
Ci puoi raccontare il progetto One Space / One Sound allo spazio AuditoriumArte della Fondazione Musica per Roma, che ospita installazioni e opere che realizzano una stretta relazione tra il suono e le arti visive?
Anna Cestelli Guidi | One Space / One Sound è un progetto espositivo di ricerca sulle multiformi relazioni tra arte visiva, architettura e suono che ho avviato un paio di anni fa per lo spazio espositivo dell’Auditorium di Roma.
L’idea è nata dalla constatazione del crescente interesse nell’ultimo decennio nei confronti dell’elemento sonoro da parte dell’arte contemporanea e, al tempo stesso, dal desiderio di contestualizzare l’attività espositiva dell’Auditorium, che è per l’appunto il grande luogo dedicato alla musica a Roma; esplorando le molteplici ramificazioni dell’incontro tra arte visiva e suono all’interno di uno stesso spazio.
Se da un lato l’Auditorium è il contesto perfetto per produrre ed esporre progetti dove il suono ha un ruolo fondamentale, questo stesso contesto è ciò che interessa gli artisti, ossia la possibilità di presentare il proprio lavoro in un luogo eterodosso, del tutto diverso da gallerie e musei di arte contemporanea.
All’interno di questa linea di ricerca i vari progetti che si sono succeduti hanno dimostrato una gran varietà e diversità di approcci. Così Massimo Bartolini, con cui abbiamo inaugurato questo progetto nel 2013 in occasione del centenario della nascita di Glenn Gould, ha trasformato lo spazio espositivo in spazio pittorico e sonoro; il sound artist svizzero Zimoun ha creato un ambiente sonoro immersivo di un’ipnotica ritmicità; le installazioni multimediali del duo coreano Young-Hae Chang Heavy Industries hanno modificato lo spazio in un ambiente liquido, sempre in movimento; Francesco Fonassi lo ha utilizzato per l’ascolto vibrante di un fenomeno acustico.
Come si inserisce il lavoro di Invernomuto, la loro ricerca artistica fatta di linguaggi eterogenei, nel progetto espositivo dell’Auditorium?
A. C. G. | Nel percorso di questa ricerca di esplorazione dei complessi intrecci tra i linguaggi dell’arte visiva e del suono, il lavoro di Invernomuto è più che mai coerente. Il loro è un lavoro dove gli elementi visivi e sonori sono indissociabili. Le loro installazioni, come la versione di Wondo Genet realizzata qui in Auditorium, non solo sono concepite con una grande attenzione allo spazio ma sono costruite attorno al suono che è fondamentale nel determinare questo stesso spazio. La compenetrazione assoluta tra immagine e suono che caratterizza le loro installazioni si ritrova anche nell’attenta elaborazione sonora dei lavori video.
Cosa ti ha colpito del lavoro di Invernomuto, dei loro progetti che costruiscono un universo polisemico come Negus?
Manuela Pacella | In questi giorni leggevo un vecchio articolo pubblicato sul numero 10 di NERO del 2006, Talk Radio. Si tratta della trascrizione, a cura di Luca Lo Pinto, della trasmissione di Barry Champlain andata in onda sulle frequenze di 154 FM a New York il 2 gennaio 1991.
Le parole di Champlain si riferiscono ad una mostra di Douglas Gordon e, seppur nella loro semplicità, rimandano alla reazione che ho sempre avuto di fronte alle opere di Invernomuto – anche rispetto a progetti che conosco di più come Negus: «Non capisco molto, però mi intrippa. (…) Il fatto che non capisco del tutto quello che sto vedendo è un buon segno. Di solito è tutto abbastanza semplice, no?»
L’eterna sensazione di apprendere il loro lavoro solo attraverso momenti epifanici, senza riuscire mai a creare una costellazione più completa che possa in qualche modo calmare la mia sete di comprensione razionale, è l’elemento di maggior forza di Invernomuto.
Come pensi che l’arte e il suono trovino i migliori elementi di congiunzione e sperimentazione, anche in riferimento alle opere di Invernomuto?
M. P. | Premetto che non mi ritengo un’esperta dell’arte del suono. Il mio rapporto con il suono ha un qualcosa di ancestrale e, in qualche modo, tale vuole rimanere. Per questo motivo sono convinta che, almeno per quanto mi riguarda, l’arte e il suono riescano nel loro obiettivo quando, piuttosto che aggiungere elementi, trovano una strada per completarsi l’un l’altro.
Nel caso specifico, ad esempio, nell’installazione multimediale di Invernomuto Wondo Genet il sound system artigianale dà un ritmo costante e profondo che non distoglie l’attenzione dagli altri elementi dell’opera (dove vi è anche un altro sonoro che viene dal video) ma, come un battito, guida in maniera naturale a immergersi nella tappa etiope del mondo Negus.
In Negus – Remembering a Night in Sasha, invece, il paesaggio sonoro ha chiaramente la funzione di aiuto mnemonico per lo spettatore. Nel raccontare di quella notte alla disegnatrice di identikit Invernomuto fornisce i dettagli di persone e luoghi che vengono anche evocati dai suoni e rumori di sottofondo, come l’abbaiare di un cane o un bar affollato.
L’installazione ambientale Wondo Genet è stata presentata la prima volta a Marsèlleria a Milano, come l’avete ripensata per la mostra allo spazio AuditoriumArte di Roma e che valore ha la dimensione sonora nel vostro lavoro?
Invernomuto | A Marsèlleria l’accesso a Wondo Genet avveniva tramite un corridoio buio e occupava il piano interrato dello spazio espositivo. Un basement luminosissimo pensato per ospitare una coltivazione indoor. All’Auditorium, invece, l’installazione era già visibile dall’esterno, attraverso le vetrine; luce naturale e luce artificiale. A Milano lo spazio era segreto, a Roma sgorga verso l’esterno. Questa è la variazione primaria.
Negus è intriso di suono, parla di una cultura musicale molto precisa, ovvero quella del reggae, del dub e delle pratiche musicali che la Giamaica ha prodotto negli ultimi cinquanta anni. Ma il suono è presente anche nelle modalità di propagazione del progetto, nella sua ritmica e nei suoi echi e riverberi tra materia filmica e installazioni.
Partendo dal video Remembering a Night in Sasha, racconto di una notte passata nella comunità Rastafariana di Shashamane in Etiopia, potete raccontarci quale sarà il futuro del vostro progetto Negus?
I. | Siamo rientrati da pochissimo da un viaggio in Giamaica, lì abbiamo finalmente girato le scene mancanti per completare il film Negus. Il progetto è iniziato ormai tre anni fa e ad oggi riusciamo a vederne un epilogo, anche se sostanzialmente è impossibile uscirne. In questi mesi Negus ha prodotto molte opere ed output differenti, il film sarà solamente l’ultima fase, probabilmente la più importante. Se tutto procede come previsto contiamo di averlo pronto per il prossimo autunno. Negus è evidentemente il ciclo di opere più imponente ed estenuante di tutti i nostri lavori, quindi resterà tale. E ci auguriamo si manifesti ancora per molto tempo.
immagini (cover 1 – 2)Invernomuto, Wondo Genet, AuditoriumArte, Roma, 2015. Photo Musacchio & Ianniello. (3)Invernomuto, WondoGenet. Installation view, AuditoriumArte, Roma, 2015. Photo Musacchio & Ianniello. (4) Invernomuto, Wondo Genet, AuditoriumArte, Roma, 2015. Dettaglio del video. Photo Musacchio & Ianniello. (5) Invernomuto, Negus – Remembering a Night in Shasha, 2014, disegni. Photo Musacchio & Ianniello. (6) Invernomuto, Negus – Remembering a Night in Shasha, 2014, video still.