In conversazione con Dobrila Denegri, l’artista Vesko Gagović racconta del suo intervento alla 58a edizione della Biennale di Venezia per il Padiglione del Montenegro. Il suo progetto installativo Odiseja si snoda dal tema della pellicola “2001: Odissea nello spazio” per affrontare il tema della tecnologia e della scienza, nel loro interferire nel quotidiano e nell’immaginario del futuro.
Dobrila Denegri: Alcune creazioni dello spirito umano hanno formato, influenzato e ispirato intere generazioni. Questo effetto coesivo lo ritroviamo nella musica, come testimoniato da esempi del rock classico quali “The Dark Side of the Moon” dei Pink Floyd, o “Stairway to Heaven” dei Led Zeppelin. Lo stesso si può dire di alcune opere letterarie o cinematografiche, tra le quali occupa un posto speciale “2001: Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick, un film rimasto profondamente impresso nell’immaginario collettivo, insieme al romanzo di Arthur C. Clarke che lo ha ispirato. Il modo in cui affronta il tema della civiltà e il suo progresso attraverso la tecnologia riecheggia tutt’oggi. La tecnologia, che avanza a crescente velocità, influisce profondamente sul nostro senso di realtà. Inoltre, la produzione e il consumo di massa di informazioni e dati visivi ci fanno sentire proiettati in qualcosa che si delinea come un “presente permanente”. Siamo immersi in quel flusso continuo di dati e di immagini che proliferano attraverso la rete e i social media. Il senso e il significato di questi contenuti si inflaziona con la stessa velocità con cui essi circolano, sempre più slegati dal contesto che li ha originati. Nell’esatto momento in cui elaboriamo, contestualizziamo, mettiamo in dubbio il significato di questi contenuti, questi sono già obsoleti, sono già divenuti “storia”. D’altro canto, la produzione dei dati e stimoli visivi è diventata tale che consumarli, anche superficialmente è pressoché impossibile, però la loro mole “copre” tutto quello che li ha preceduti e sono già diventati “storia”. Che cosa ti ha spinto a cercare oggi un riferimento storico, così significativo e carico di interpretazioni, come “Odissea nello spazio”?
Vesko Gagović: Mi sembra che con il tema della Biennale di quest’anno, “May You Live In Interesting Times”, trovino conclusione riflessioni già espresse nelle edizioni precedenti, affermando che siamo in un momento di totale saturazione. Siamo chiamati ad assumere una posizione di responsabilità nei confronti del mondo, in direzione di un modo alternativo di vivere il Pianeta. Un momento dunque in cui abbiamo la possibilità di riproporre i vecchi schemi o di ripensare completamente la relazione presente/futuro. Abbiamo bisogno di un nuovo modus vivendi! In questo senso, il riferimento al film di Kubrick non è casuale: trattando il tema della evoluzione della nostra civiltà attraverso il progresso tecnologico, il film parla della fine e dell’inizio, e anticipa la possibilità di un’intelligenza non-umana ed i relativi effetti sulla vita nel Pianeta.
Per comprendere a pieno il tuo lavoro è molto importante capire i tuoi punti di riferimento, spesso presenti in maniera allusiva, sottile, indiretta. Il tuo linguaggio astratto e formalmente minimale non rivela al primo sguardo altri riferimenti oltre a quelli puramente pittorici. Ma anche se la questione formale è rilevante nel tuo lavoro, lo sono anche quegli elementi che ne compongono il “sottotesto” e che analizzano e commentano il contesto sociale, a volte in maniera riflessiva, altre critica, altre ancora ironica. Per esempio, la serie di quadri/oggetto che hai realizzato a partire dal 2000 (monocromi in nero, argento, oro) possono essere realmente compresi solo cogliendo la corrispondenza tra i titoli e i colori di quelle macchine che rappresentano il più ambito status-symbol per certi ceti sociali in Montenegro. La serie Tappeti della fine degli anni Novanta, mostra che c’è molto di più da afferrare oltre alle questioni pittoriche di colori, composizione, pastosità, tratto pittorico. Che ruolo attribuisci all’artista nel contesto in cui vivi?
Apertura, superamento dei confini, flusso delle informazioni, accelerazione tecnologica, alienazione, ansia, edonismo, dolore… viviamo tutto ciò. I nostri tempi sono davvero interessanti… Sono tempi in cui l’interesse per l’arte è minore in confronto all’attenzione che si presta a scienza e tecnologia. La scienza stessa è sempre più parte della ricerca artistica o, per citare Damien Hirst sta diventando per molti una “nuova religione”. I nostri sono anche i tempi di una totale spettacolarizzazione che mira a rendere ogni cosa più immediata e comunicativa. Oggi l’artista non può più essere il genio che si ritira a creare isolato nel suo studio. Si deve comportare come un produttore, un regista, un curatore. Se ampiamente riconosciuto, si deve circondare di interi team che lavorano sulla produzione e promozione della sua ricerca.
Nonostante tutto questo, credo che per l’artista contemporaneo sia più importante esprimere sé stesso ed assumere un atteggiamento attivo ed impegnato nei confronti dell’attuale situazione sociale.
Quando ripercorro la mia produzione, mi rendo conto che oltre alla dimensione formale, che per me è importante, c’è sempre anche uno strato di narrazione che fa riferimento alla nostre tradizioni locali, o che riflette le mie riflessioni critiche o i miei stati mentali più intimi.
L’arte del Ventesimo secolo, dall’astrattismo della prima metà del Novecento, al monocromo, alla pittura minimale e al colour field painting del secondo dopoguerra, è stata accomunata dalla volontà degli artisti di affermare l’autonomia del linguaggio artistico. L’arte non doveva necessariamente rappresentare qualcosa oltre a sé stessa. Però negli anni Ottanta, grazie ad artisti come Peter Halley, è emersa una pratica pittorica attenta alla superficie, alle forme geometriche e alla stesura del colore, registro semantico dietro il quale celare riflessioni sui sistemi governati dalla logica del capitale o dalla tecnologia. Tu hai cominciato alla fine degli anni Ottanta. Come consideri il potenziale narrativo dietro le forme geometriche e non figurative della tua cifra pittorica? Come hai introdotto le forme geometriche, astratte, minimali nel tuo lavoro?
Le forme geometriche hanno iniziato ad apparire nel mio lavoro durante gli anni Novanta, quando i nostri territori sono stati pervasi dal conflitto bellico scatenatosi dopo la dissoluzione della Jugoslavia. In questo periodo, profondamente tragico e turbolento, per me come artista era importante affermare gli ideali della compostezza, della concentrazione e dell’autonomia dell’arte. Allora ho iniziato a scegliere materiali più delicati e fragili, come legno, vetro, smalto industriale grigio, nastri adesivi, scalpello… Intervenendo in maniera minimale sulla superficie del vetro, con uno strato uniforme di colore (grigio) e con una semplice forma geometrica (triangolo o cerchio, ottenuti alternando sottili linee verticali) creavo oggetti discreti, quasi ottici. Per me erano miniature, scatole, oggetti realizzati seguendo un mio sentimento interiore.
I tuoi Oggetti sospesi fanno venire in mente il monolite della famosa saga Kubrickiana. Sarebbe interessante ricordare un altro artista le cui opere rievocano lo stesso riferimento. Parlo di Alan Charlton, artista conosciuto, per sua stessa definizione, come “il pittore dei quadri grigi”. Attraverso di essi puntava a creare un’arte “astratta, onesta, diretta, urbana, pulita, semplice, quieta e assoluta”. Ti riconosci in alcune di queste categorie?
Ciò che caratterizza le mie opere e determina il mio lavoro è l’essere realizzate seguendo un concetto unico. Da una parte questo concetto si basa sullo stretto legame tra intervento minimale, concisione, monocromia, forme pure, strutture astratte rigide. I miei quadri/oggetti sono espressione della unità di tutti questi aspetti. Dall’altra, è sempre presente una chiara dimensione riflessiva. Il significato dell’opera emerge dal metodo di lavorazione dei materiali, dal processo pittorico, e dallo studio dello spazio e del contesto circostante.
C’è una scena iconica, non solo per il film Kubrick, ma per la storia del cinema in generale ed è proprio quella in cui appare il monolite in uno scenario da “inizio dei tempi” abitato da quelli che potrebbero essere i nostri antenati. La scena procede in crescendo, fino al momento topico in cui il primate prende l’osso e comincia a usarlo come se fosse un’arma o un utensile. I toni epici del poema sinfonico di Strauss, intitolato da Nietszche “Così parlò Zarathustra”, enfatizzano l’importanza simbolica di questo gesto, che rappresenta un passaggio cruciale nel processo evolutivo. Il film di Kubrick allude, e i romanzi di Arthur C. Clarke lo confermano, al fatto che il monolite è di origini extraterrestri, e in quanto tale va considerato come l’espressione di un’intelligenza superiore. Nella saga di Clarke, i monoliti appaiono diverse volte, ma sempre per indicare stati di coscienza più alti o moti salvifici nei confronti dell’umanità. Le interpretazioni di questa scena di “Odissea nello spazio”, e del film intero, sono molteplici, ma se spostassimo qualche aspetto al momento attuale, emergerebbero questioni che mi paiono come un paradosso dei tempi che viviamo. Da una parte, il progredire della scienza e della tecnologia rappresentano il desiderio di elevarsi, dall’altra le dominanti narrazioni politiche istigano gli impulsi più bassi al fine di ottenere facili consensi [estremizzando il divario tra “popolo” ed “elite”. Evolvere, elevarsi, educare, svolgere ricerca nel campo dell’arte o della cultura in generale non trovano spazio in questa visione politica.] Credi che questa dinamica tra flussi progressivi/regressivi sia presente nel tuo lavoro?
Alcuni lavori della mia produzione riflettono sul contesto sociale, politico, culturale in cui vivo e lavoro, perché, naturalmente, un artista non è una entità isolata in una “torre d’avorio”, ma è sempre coinvolto, intellettualmente ed emotivamente, nella realtà, realtà che osservo e sulla quale rifletto. Nelle opere come Igiene (video), Audi, Mercedes (quadri/oggetti), e Adriatic Sea (installazione), questa dimensione critica è più esplicitamente manifestata e si rivolge a fenomeni sociali di cui sono testimone e che sento di dover affrontare perché riguardano la situazione del Montenegro.
Ora, prendendo spunto da quella scena filmica così simbolica, ho realizzato una serie di oggetti che “fluttuano” nello spazio e che sono posizionati all’interno del padiglione del Montenegro. Questi oggetti, in quanto ispirati all’idea di monolite, devono essere realizzati in maniera perfetta. Attraverso di essi oggettivizzo visioni che alludono a un futuro lontano, un ipotetico tempo immaginario che ci proietta in un nuovo mondo e in una realtà migliore. Qui, mescolo elementi di humor, fantascienza, emancipazione ed elevamento culturale.
I tuoi Oggetti sospesi potrebbero sembrare ermetici e imponenti. Il loro aspetto enigmatico potrebbe suscitare diverse reazioni, sia di attrazione sia di disinteresse. Giocano sul confine sottile tra realtà e illusorietà. Hanno una forte presenza fisica, posta su un piedistallo di luce: un oggetto sorretto da qualcosa di immateriale. Potresti commentare questa dialettica tra materiale/immateriale che emerge dal lavoro?
L’opera intitolata Oggetto sospeso MDF, è stata presentata per la prima volta nella galleria Dvorac Petrovića a Podgorica nel 2014. Ora, per la presentazione nel padiglione montenegrino, è stata leggermente modificata per adattarsi allo spazio e al contesto della Biennale.
La struttura originaria di questa scultura è costituita dalla cassa usata per trasportare i miei dipinti A8 e A180, che erano esposti nella mostra “Adriatico – Le due sponde / 52° Premio Michetti” a Francavilla a Mare nel 2001. La cassa è stata poi modificata e trasformata, perdendo la sua funzione utilitaria e diventando una struttura verticale, perfettamente levigata e proporzionata. Vuoto all’interno, questo oggetto è installato in modo da “non toccare” il pavimento, e dalla base inferiore emana una luce intensa.
Il progetto “Odissea” è composto ora da tre oggetti tridimensionali, di diverse dimensioni e diverse forme geometriche. Sono posizionati in tre stanze e danno l’impressione di librarsi nell’aria. Sono realizzati in situ, montando strutture di legno e gesso, poi dipinte con molti strati di colore oro e nero.
Il primo oggetto, Cubo, si trova nel centro della stanza rettangolare, ed è nero opaco. Il secondo Oggetto sospeso è un grande parallelepipedo tridimensionale che si estende verticalmente fino al soffitto ed è di colore oro lucido. Il terzo, Monolite, è un rettangolo verticale, alto fino al soffitto e dipinto con un colore nero opaco. La base di tutti questi oggetti emana una forte luce a LED, i cui riflessi sul pavimento intensificano l’effetto della sospensione.
Ciascun Oggetto sospeso ha una forma geometrica pura che occupa lo spazio centralmente e chiede al visitatore di girarci intorno. Questo aspetto riporta alla mente alcune opere precedentemente realizzate da altri artisti che avevano un’attenzione simile per la geometria e la perfezione. Potrei citare The Table of Perfect (1989) di James Lee Byars, costituita da un cubo di marmo perfettamente proporzionato, levigato agli angoli e coperto da foglie d’oro. Nella sua poetica, sono affrontate questioni come la dialettica votivo/speculativa e quella dell’aspirazione alla perfezione, che rimane, per noi, nel reame dell’irraggiungibile. Un altro esempio potrebbe essere quello di Malevich, che seguendo l’idea del Quadrato nero progettava di realizzare un cubo nero che sarebbe diventata la tomba di Lenin. Pur non essendo concepito come un omaggio a Malevich, un lavoro simile è stato realizzato da Gregor Schneider ad Amburgo (2007) e a New York, dopo tentativi falliti di erigere un cubo nero a Berlino e a Venezia in Piazza S. Marco (2005). Il suo riferimento iniziale era la Kaaba a La Mecca, e il suo carattere di luogo di culto. Sebbene questi esempi non condividano con il tuo lavoro riferimenti e interpretazioni, ciò che li potrebbe accomunare è il rapporto che l’oggetto scultoreo instaura con chi lo osserva. L’impermeabilità delle forme geometriche induce lo spettatore a girarle intorno, assumendo un comportamento di carattere ritualistico o performativo. Ti interessa l’aspetto performativo della relazione tra scultura e osservatore?
Credo che il segreto di ogni idea risieda nel suo misticismo. Quando qualcosa è rivelato e spiegato, la magia del mito sparisce. Questo è il messaggio di Kubrick. Sebbene queste opere siano pura geometria, minimali, semplici, essenziali, la loro collocazione nello spazio e il loro forte impatto visivo possono innescare riflessioni e aprire un ampio spettro di possibili associazioni e considerazioni.
Non solo gli Oggetti sospesi avranno molteplici effetti sul pubblico, ma sarà anche importante per me comprendere la relazione che si instaurerà nello spazio tra l’opera e l’osservatore. Il significato di ogni lavoro, pur operando a livello razionale, lo travalica. Potrebbe essere di notevole interesse vedere come questi oggetti severamente geometrici e minimali, ispirati all’Odissea di Kubrick, possano funzionare all’interno del tema della Biennale, “May you Live in Intersting Times”, proposto dal direttore artistico Ralph Rugoff.
Gli Oggetti sospesi sono stati concepiti come sculture autonome, prive di un legame “site-specific” con il luogo. Comunque, inevitabilmente lo spazio circostante contribuirà al processo percettivo ed ermeneutico. Come sarà realizzata l’installazione degli “Oggetti sospesi” nello spazio di palazzo Malipiero, sede del padiglione del Montenegro a Venezia?
Gli spazi del padiglione del Montenegro aderiscono perfettamente alla nostra concezione di allestimento e di rapporto con il pubblico. Le dimensioni di ogni oggetto sono proporzionali alle misure della stanza che li ospita. Tre oggetti sono posizionati centralmente, così che il pubblico possa girarci intorno. Ogni stanza è “occupata” da questa “presenza” che sembra sospesa, seguendo un’asse orizzontale/verticale, che permette allo spettatore di circolare intorno ad essa. Di questa installazione, ciò che mi interessa è il rapporto qualitativo tra la costruzione minimale, il suo volume e la sua ipotetica sospensione. Gli oggetti, emanando una forte luce dal basso, creano un effetto illusorio che investe l’intero spazio. Suggeriscono che il rapporto corporeo/non corporeo rispetta la forza di gravità.
Vesko Gagović.Odiseja/An Odyssey/Un`Odissea, a cura di Petrica Duletić
Padiglione del Montenegro della 58° Biennale d’Arte – Palazzo Malipiero (piano terra), San Marco 3078-3079/A, Ramo Malipiero – Venezia
immagini: (cover 1) Vesko Gagović – Portrait. Photo by: Duško Miljanić (2-4)Vesko Gagović – “Odyssey / Cube”, 100x100x100 cm. plaster, MDF, LED, black matt colour. Photo by: Duško Miljanić (3) Vesko Gagović – “Odyssey / Cube” – render