È in mostra, alla PostmastersROMA, un amore ardente, a tratti struggente, sempre criptico eppure chiaro, uno di quegli amori che – sempre sul filo del rasoio – sono in procinto di sprofondare nella distruzione (e nell’auto-distruzione). Un amore tinto di magenta, colore inesistente nello spettro cromatico della natura, il colore più spiccatamente umano, artificiale e antinaturale, eppure di poco diverso dal colore delle fuchsie. Un amore cosmico, messo in scena da Federica Di Carlo, nell’esposizione Volevo il Sole, un’ambiente immersivo e sinestetico, per sua natura teatrale, tra la Terra e il Sole, o forse sarebbe meglio dire tra l’umanità e la sua indispensabile stella così lontana che gli regala la vita.
Sempre in equilibrio tra arte e scienza (e l’astronomia cos’è se non una tra le migliori fusioni tra questi due cardini esistenziali), l’artista – vincitrice della decima edizione dell’Italian Council – ha seguito per 18 mesi l’esperimento ITER sul campo, l’avveniristico progetto di fusione nucleare per “ricreare” un Sole artificiale sulla Terra. È stata l’unica artista ad aver avuto il permesso di entrare nel reattore di questo incredibile esperimento, da cui nasce il senso profondo di questa mostra.
Una mostra fortemente fondata, sembrerebbe, su complessi e astrusi concetti matematico-fisici, esperimenti molto lontani dalla quotidianità ed elementi che spesso siamo abituati a percepire attraverso il loro effetto spaesante e weird, che ci fa sgranare gli occhi e ci tiene con la bocca aperta a cercare di immaginare – fallendo – concetti così specifici e difficili da agguantare con il pensiero. Questo è tutto ciò che la mostra non è, tutto quello che nella mostra esiste ma non si vede, per lasciare spazio alla percezione di qualcosa di molto più importante e decisamente più legato alla nostra esistenza, qualcosa che ha a che fare con la natura umana in relazione alla Natura in sé. La percezione di se stessi in relazione al mondo (e all’universo). Il rapporto tra la Terra e il Sole in chiave romantica, e dunque umana, di quell’umanità che predilige l’essere al sapere, senza scadere in quel classico postmodernismo spicciolo e facile, per restare, anzi, ancorato alla realtà dei fatti e all’inemendabilità dei pensieri.
La mostra di Di Carlo si sviluppa in 3 atti e sostanzialmente in 4 elementi che sconfinano l’uno nell’altro, accogliendo quattro dei nostri cinque sensi. Il primo è il dialogo, appunto in 3 atti, tra l’umanità e il sole, le cui frasi del piccolo libretto ritroviamo scritte sui muri della galleria. Esse creano un rimando con tutti gli altri elementi della mostra, ma soprattutto con le fotografie, cromaticamente distorte dalla luce magenta che le inonda, degli interni del reattore del progetto ITER e di dettagli di diverse statue di Urania e Apollo, sparse in alcuni musei europei, che tengono nella mano un corpo celeste, in una relazione percettiva di warburghiana memoria.
La sfera nelle mani delle divinità, così perfetta e carica di implicazioni filosofiche che travalicano la mitologia greco-romana, la ritroviamo nelle due sculture che si relazionano sul fondo della galleria, restando totalmente invariata. A cambiare, infatti, sono soprattutto le mani: da una parte la sfera è scomparsa e la mano, come bruciata e sciolta, è aperta e lieve – la mano dello scienziato, che a differenza di quella degli dei, fa i conti con la sua umanità; dall’altra la sfera è stretta da una mano quasi rabbiosa e volgare – la mano dell’uomo contemporaneo che con il suo potere terreno “vuole il Sole”.
Infine, all’inizio dell’esposizione, che coincide con il termine, troviamo l’ultimo atto di questa trama, che se passandoci la prima volta, entrando nella mostra, ci ha affascinato e incuriosito, ripassandoci nel finale acquista forza e drammaticità, dimostrando di essere una sorta di sintesi totale di tutto ciò che abbiamo abbozzato sopra e di possedere in sé sensi profondi assolutamente non del tutto chiarificati: un antico mappamondo che rotea lentamente, appeso al soffitto, che fa riecheggiare per tutta la sala espositiva l’ibrido sonoro di alcuni versi della canzone Il Mondo di Jimmy Fontana e della melodia Magnetic Field Sun, il suono archiviato dall’ESA, prodotto dall’incontro delle onde sonore della Terra e quelle del Sole (l’ibrido sonoro della relazione amorosa tra Terra e Sole, che fonde cultura e tecnologia in un tutto-integrato), e che ha alla fine delle aste su cui poggerebbe dei bastoncini di palo santo che possono essere accesi, solo con un compromesso però, quello di acquistare e trattenere la stessa rotazione della sfera-mondo.
Un’opera-ambiente sfaccettata e complessa, dunque, caratterizzata da angoli cechi e relazioni contingenti, che come scrive Giuliana Benassi a proposito del mappamondo, racchiude il senso di tutta la mostra: “Di nuovo la relazione tra Sole e Terra si consuma in un incontro, uno scontro, una imprescindibile relazione dove ognuno di noi si può proiettare, in quel precario equilibrio di dare e ricevere, tenendo alta la domanda Perché vuoi sempre di più di quello che già hai?”.
Federica Di Carlo. Volevo il Sole, PostmastersRoma, Roma, 13.01 – 03.03.2023
La mostra è accompagnata dal testo critico di Giuliana Benassi che potete leggere qui
immagini: (Cover 1): Federica Di Carlo, «Volevo il Sole», PostmastersRoma, veduta di installazione, 2023, ph: Giuliano Del Gatto(2) Federica Di Carlo, «Volevo il Sole», PostmastersRoma, veduta di installazione, 2023, ph: Giuliano Del Gatto (3) Federica di Carlo, «Volevo il Sole», 2022 gesso, magenta pigment, ph: Giuliano Del Gatto (4) Federica Di Carlo, «Volevo il Sole #2», 2022 (5) Federica Di Carlo, «Volevo il Sole Jan», 2023, ph: Giuliano Del Gatto (6) Federica Di Carlo, «Volevo il Sole», PostmastersRoma, veduta di installazione, 2023, ph: Giuliano Del Gatto (7) Federica di Carlo, «Bruciare», scultura in carboncino e gesso sintetico, (mano di scienziato), 2022, ph: Giuliano Del Gatto