Per il secondo anno consecutivo il FAI apre al pubblico le porte sotterrane dell’Albergo Diurno Venezia a Milano, attraverso un progetto artistico site specific. Dopo Sarah Lucas (2016), quest’anno è Flavio Favelli a inserirsi tra le suggestive architetture Art Decò dell’ex centro servizi, costruito negli anni Venti su progetto di Piero Portaluppi e chiuso definitivamente nel 2006, dopo un lungo periodo di abbandono e degrado.
Nell’Albergo Diurno, Favelli recupera la relazione con il luogo, in perfetta linea con la sua ricerca, il cui tema centrale è l’espressione del ricordo, personale e soggettivo, che in seconda istanza si fa pubblico, collettivo, diventando memoria condivisa.
Il passato sopito è il fulcro dell’intervento milanese, nel quale l’artista decide di far rivivere il ricordo degli arredi dispersi – osservati nelle fotografie anni Venti e Trenta della struttra – per ricollocarli nei controversi anni Ottanta, periodo di maggiore fortuna del Diurno e, al contempo, di grande importanza per l’artista, che in ogni opera non prescinde mai dalla sua storia personale. Con grande costanza, seguendo quasi una pratica archeologica di recupero, catalogazione e conservazione, Favelli raccoglie mobili da quasi vent’anni, arredi dei primi del Novecento – racconta l’artista – il cui unico valore è quello di ruotare attorno a un tempo passato personale denso di ricordi. Alla conservazione segue il «restauro» di questi oggetti di riporto. È un riuso che ha il sapore dell’innovazione e della riattualizzazione: ed ecco nel salone centrale del Diurno quattro sculture di grande fascino, che mostrano una coerenza filologica con le architetture e con il mobilio superstite, ma che evocano il nonsense, poiché prive di alcuna funzionalità, né tanto meno riconducibili ad oggetti reali. Le originarie isole con divani a forma circolare e i tavoli con sedie e lampade degli anni Venti diventano assemblaggi di frammenti di vari materiali come mattonelle di graniglia, parti di mobilio e specchi. Le quattro sculture sone le protagoniste di un ambiente senza tempo. Attraversato il salone centrale, negli stretti corridoi dell’Abergo, Favelli colloca cinque insegne luminose, anch’esse frutto della stessa pratica di «accumulo» e stratificazione, in questo caso di scritte e di loghi di attività commerciali.
Questi neon chiamano in causa il passato, anni Ottanta, ed oggi attivo sotto altra forma, attraverso insegne luminose dai nomi sovrapposti simil futuristi e quasi onomatopeici, come afferma l’artista.
Nonostante gli echi duchampiani del ready-made e gli approdi pop, la poetica del frammento di Flavio Favelli parla degli affetti, della memoria, partendo dalla cultura materiale, da una rinnovata attenzione storiografica ed antropologica per gli oggetti, trasformati in cose, attraverso un approccio relazionale-emotivo con essi, secondo la definizione di Remo Bodei. La sue opere non solo mantengono le qualità secondarie degli oggetti, ma li convertono in cose, ricostruendone le vite silenziose. Oltre il guscio materico e materiale – che per l’artista si lega alla dimensione artigianale del fare -, queste «cose» nascondono valori simbolici, congiungendo «il visibile rappresentato all’invisibile assente». La ricerca di Favelli si traduce così in oggetti significanti, fondamentali per la comprensione dei modelli culturali a cui fa riferimento, che parlano e si costituiscono in un sistema di storia condivisa.
immagini: Flavio Favelli, Albergo Diurno Venezia, Milano, installation view (29.03 – 14.05.2017)