Segnate da una valenza simbolica che fa i conti con un vasto dizionario di tecniche e materiali, le opere di H.H. Lim (Malesia – 1954, vive e lavora dal 1976 tra Roma e Penang) resistono alle temperie del presente e coniugano, sotto uno stesso manto estetico, lo spessore della tradizione cinese e malese con gli strumenti dell’innovazione planetaria, per mostrare un’arteria visiva che, tra ironia e provocazione, tra visione occidentale e visione orientale, tra i miracoli e i traumi della comunicazione massiva, dimenticano a memoria la cultura, costruiscono cortocircuiti riflessivi sul presente, sulle presenze dell’arte e della vita. La sua è una registrazione in diretta, suggerisce Achille Bonito Oliva: «diretta che, come la televisione, ci rappresenta figurativamente il bombardamento mediatico cui tutti noi siamo sottoposti, per le buone e le cattive notizie, per l’economia e il costume».
Dal video alla performance, dalla pittura monocroma alla scultura calligrafica, dall’installazione alla fotografia, il lavoro di Lim affronta con eleganza babelica gli orizzonti della politica e dell’economia per scuotere il sistema nervoso dell’arte e invitare lo spettatore a ripensare la natura di un abecedario multiculturale sfuggente e snervante. Con C’est la vie (2013), ad esempio, le scatole cinesi diventano gabbia occidentale, fortezza, istituzione totale, isolamento dell’uomo contemporaneo. Ma anche, inversamente, luoghi di protezione, cinture di sicurezza dalle brutture del mondo, spazi chiusi in cui rifugiarsi, ambienti eterotopici entro i quali fantasticare.
Tra gli esponenti di spicco del continente asiatico contemporaneo – assieme a Lin Yilin, Wang Du, Xu Tan, Yan Pei-Ming, Huang Yong Ping e Yang Jiechang – Lim elabora via via un discorso reale sul nomadismo e sull’apolidia per spostarlo nel campo largo dell’arte e condurre così un gioco poliglottico che si svincola continuamente da preorganizzazioni e precostruzioni linguistiche. «Il metodo di Lim diventa» infatti «la costante che accompagna opere di diversa estrazione, eppure legate tra loro dal bisogno di uno sconfinamento interdisciplinare non puro e semplice, ma necessario per fondare una peripezia estetica legata a un processo di conoscenza» (ABO). Producendo un’atmosfera che frulla e democratizza i vari territori linguistici, Lim si muove come una macchina che perfeziona gli strumenti più adeguati ai suoi intrinseci obiettivi di pensiero per rendere il tutto funzionale alle strategie di un disadattamento programmato nei confronti delle società contemporanee.
Padre di straordinarie performance come Red room, dolorosa azione durante la quale si fa inchiodare la lingua a un tavolo, e Patience dove – seduto di spalle a un video – è intento a pescare una carpa dorata intrappolata (ammaestrata?) in un’acquario, Lim produce un itinerario filosofico della realtà umana che, facendo sviluppare il pensiero logico dal senso e dall’emozione, non solo dà ampio spazio al Witz (motto di spirito), ma rivendica anche la radice materiale della mente. La scelta di utilizzare il linguaggio verbale e di esercitare solchi sulla superficie – su superfici trattate con pochi colori (il Rosso Ossido, il Bianco d’Avorio, il Nero di Marte e il grigio – «il grigio è il colore della teoria» ha avvertito Vilém Flusser) porta l’artista a concepire una tattica che immette il fruitore in un labirinto riflessivo, in un perimetro meditativo: pagina di un racconto infinito, campo di lettura, foglio d’appunti privati e di dibattiti pubblici.
Centrale nel suo lavoro è, assieme alla valigia, la sedia, compagna di strada dell’artista che offre punti di vista privilegiati sul mondo. La seduta diventa superficie su cui riflettere, spazio privilegiato d’osservazione: «sedersi vuol dire pensare, del resto il mio modo di vere l’arte è un po’ come esplorare la costante metamorfosi di una nuvola nel cielo».
L’artista con la valigia diventa un messaggero, un diplomatico dell’arte e un cavallo di troia che rompe gli argini al sistema artistico per entrare ed estendere la propria cifra estetica dei flussi del quotidiano, per appropriarsi del mondo. Il suo vocabolario gioca a scacchi (e non è forse una Partita a scacchi la performance organizzata con Yang Jiechang a MiArt 2011?) con le varie figure del sistema dell’arte – con le regole del museo, delle fondazioni, dei collezionisti, delle gallerie, dei critici, dei curatori – per orientare il discorso verso una prospettiva difensiva, dettata da una resistenza etica che riflette sulle smagliature dell’attualità, su un mondo il cui modello si lega irreparabilmente al commercio, ai falsi miti e riti d’oggi.
La lunga avventura, a Trastevere, di Edicola Notte (1990-2015), un Artist Space notturno che invita artisti internazionali a pensare, mediante opere site-specific, sulle varie forme dell’arte, rappresenta una ulteriore declinazione del suo lavoro, di un processo investigativo che setaccia il tempo e crea le speranze estetiche del futuro. (questo saggio è il testo che accompagna la mostra di H.H.Lim a Macerata).
H.H. Lim. Silenzio ma non troppo, a cura di Antonello Tolve, Galleria dell’Accademia di Belle Arti di Macerata, 30.06 – 15.09.2016
Immagini (cover 1) H.H.Lim at Silenzio ma non troppo, 2016, Gaba.MC / Galleria dell’Accademia di Belle Arti di Macerata, photo by Matteo Catani (2) H. H. Lim, Silenzio ma non troppo, 2016, exhibition view, Gaba.MC / Galleria dell’Accademia di Belle Arti di Macerata, photo by Emanuele Bayo (3) H. H. Lim, Punto di Vista, Silenzio ma non troppo, 2016, Gaba.MC / Galleria dell’Accademia di Belle Arti di Macerata, photo by Matteo Catani (4) H. H. Lim, Silenzio ma non troppo, 2016, exhibition view, Gaba.MC / Galleria dell’Accademia di Belle Arti di Macerata, photo by Emanuele Bayo (5) H. H. Lim, Silenzio ma non troppo, 2016, exhibition view, Gaba.MC / Galleria dell’Accademia di Belle Arti di Macerata, photo by Matteo Catani