Eva Kekou intervista Brandon LaBelle, internazionalmente riconosciuto come artista, scrittore e teorico, con un impegno creativo rivolto a questioni sociali, culturali e storiche. Dopo aver discusso di tematiche quali l’ascolto come mezzo di resistenza e la nozione di embodiment in un contesto globale, LaBelle racconta di uno dei suoi progett recenti, The Imaginary Republic.
Eva Kekou: «…..In un mondo in cui la cultura visiva è un elemento dominante» Puoi dirci come l’ascolto può creare nuove forme di resistenza in un contesto globalizzato?
Brandon LaBelle: A mio parere, la dimensione uditiva può essere estremamente trasformativa. L’ascolto, inteso come capacità di prestare attenzione alle cose, agli altri e anche a sé stessi (ascolto come intensificazione), agisce sostenendo e nutrendo una maggiore consapevolezza e comprensione, seppur in un modo che complica il significato stesso di conoscenza (l’ascolto porta connessione, ma nel farlo provoca interruzione: è un movimento laterale, una deviazione oltre che una concentrazione). L’ascolto va oltre il visibile, l’articolato, persino i limiti dell’umano. In questo senso, l’ascolto può funzionare come mezzo per dedicarsi al non detto, a ciò che manca, o a ciò che è tenuto nascosto; per tirare fuori un tempo e uno spazio di preoccupazione e di considerazione in cui il represso o il non udito può essere affrontato, concesso, fatto risuonare. Possiamo vedere l’ascolto come qualcosa che crea un “ambiente sospeso”, una pausa, un’esitazione, un’attesa: uno spazio-tempo aperto all’emergente, che è sempre pericoloso (bello, ma pericoloso).
Si tratta di un processo molto collaborativo, perché nell’ascolto ci si estende agli altri: l’ascolto è sempre e solo un ascolto degli altri. Quindi può essere incredibilmente di supporto in termini di comprensione e accettazione, specialmente per ciò che non entra mai completamente nel linguaggio, o che viene trattenuto o frenato. Questo non vuol dire sottovalutare il grado di potere e di richiesta dell’ascolto: l’ascolto può anche insistere sulla responsabilità, sulla rispondenza; ed è anche profondamente intermittente, poiché può interrompere la circolazione delle voci e dei punti di vista. Tutte queste prospettive diventano suggestive quando si pensa a come l’ascolto può dare luogo ad atti di resistenza, di trasformazione, soprattutto insiti nelle nostre società globalizzate, che accentuano le nostre capacità di cura, generosità, attenzione e non produzione. L’ascolto, a mio avviso, può consentire un approccio lento, un approccio laterale, che potrebbe essere parte di un potenziale intervento all’interno del nostro attuale stato di catastrofe, sconvolgendo la biopolitica ipertransazionale di oggi per aiutarci ad uscirne.
Ritieni che sia un imperativo al giorno d’oggi? Se sì, perché?
In una recente raccolta di saggi di Silvia Federici, l’autrice offre un’importante visione delle esperienze del capitalismo contemporaneo, e soprattutto di come esso si ripercuote sul nostro corpo. «Infatti, uno dei compiti sociali del capitalismo, dai suoi inizi al presente, è stata la trasformazione delle nostre energie e della nostra forza corporea in forza lavoro.»[1] Trasformare o catturare il corpo come potenza olistica e sensuale attraverso una serie di progetti tecnici, meccanici e scientifici tramite la storia del capitalismo, dal taylorismo e dalla meccanizzazione ai modelli computazionali e genetici, che percepiscono il corpo come tante parti atomizzate o codici che richiedono una continua regolazione, se non un «miglioramento», per Federici indica la costante necessità di recuperare il corpo. Come afferma la scrittrice: «La nostra lotta deve allora iniziare con la riappropriazione del nostro corpo, la rivalutazione e la riscoperta della sua capacità di resistenza, e l’espansione e la celebrazione dei suoi poteri, individuali e collettivi».[2] Recuperare e celebrare il corpo significa onorare il suo potere intrinseco, di sensualità e conoscenza, di movimento e creazione; un’intelligenza profondamente energica e procreativa che, secondo Federici, è fondamentale nelle lotte contro lo sfruttamento e a favore di un mondo più egualitario. Nel suo saggio, Federici sostiene infine l’importanza dell’ascolto ed evidenzia come questa sia in realtà la chiave per recuperare il corpo: «dobbiamo imparare ad ascoltare il corpo», afferma Federici, per recuperare il suo potere intrinseco. Il modo in cui vede l’ascolto come gesto emancipatorio o trasformativo è estremamente suggestivo.
Quali pratiche messe in atto dal suono possono ricreare una network society e in quale direzione?
Nell’ottica della proposta di Federici, come può avvenire, ad esempio, l’ascolto del corpo? Che tipo di ascolto è questo, e come lo pratichiamo come forma di ascolto distinto dagli altri? Ciò che voglio prendere da Federici non è solo il fatto che l’ascolto del corpo può aiutare il recupero del suo potere olistico, ma molto di più: ascoltando «il corpo» esamino anche i modi in cui il mio corpo non è mai soltanto mio. Con l’ascolto si arriva a riconoscere e a prestare attenzione alle interdipendenze e ai legami profondi che sostengono il nostro corpo, legami che non sono mai solo sociali, o familiari, ma sono fondamentalmente planetari, elementari, chimici, e non sono mai pienamente catturabili o conoscibili. Il potere olistico a cui si riferisce Federici ha bisogno di essere catturato in un senso estremamente «selvaggio», in termini di corpo mai solo umano o riconoscibile. Ascoltando il proprio corpo, diventa subito chiaro che io non sono il mio corpo, ma il corpo è sempre più grande di me. Ascoltare il corpo potrebbe significare esercitare le nostre interdipendenze come capacità materiali, biologiche e affettive, oltre a cose che ci interrompono costantemente: l’interdipendenza non è affatto semplice. Ascoltare, in tale senso, non vuol dire solo ricevere, o armonizzare, ma anche assistere attivamente alle esigenze e alle gioie delle relazioni, riconoscere sé stessi e il proprio corpo come parte di una più ampia ecologia di esperienze ed entità, dalle sensazioni istintive, alle forme di vita virali, alle ecologie chimiche che definiscono il sangue, ai desideri, alle fantasie e ai ricordi che stanno alla base del contatto con gli altri. Sviluppare o pensare tramite «pratiche sonore» potrebbe significare lavorare ai limiti dell’ascolto, estendere l’ascolto come capacità, un’enorme capacità, come qualcosa che richiede un tipo di ricerca, un attivismo, un fare considerato: l’ascolto come un rischio che si deve correre. Mobilitare e manifestare diverse pratiche sonore, dalle vibrazioni alla ritmica, dagli infrasuoni agli ultrasuoni, dalla consonanza alla dissonanza, potrebbe voler dire sperimentare non solo con la materia sonora, ma anche con quanto l’ascolto ci può portare lontano.
In quali modi il suono può ricreare il concetto di embodiment in un contesto globalizzato?
Queste pratiche sonore hanno certamente un impatto sulle comprensioni e sulle esperienze di embodiment. Tornando a Federici, l’ascolto del corpo suggerisce che il corpo stesso è un tipo di dimensione acustica, una camera acustica in cui le risonanze, il metabolismo e la potenza sono qualcosa da costruire: il corpo come abilità, non in termini di bioingegneria, ma più secondo i modi di vivere, di respirare le diverse azioni, i processi biologici, le posizioni etiche e le intensità relazionali che ci caratterizzano culturalmente, materialmente. L’ascolto del corpo sembra suggerire che il corpo è aperto alla ricalibrazione, al riorientamento, alla configurazione: nell’ascolto ci si sintonizza su questa cosa chiamata corpo; si accompagna e si segue il corpo, nel figurarsi posizioni, comportamenti, gesti, conversazioni. Si potrebbe dire che si comincia a collaborare con il corpo. A questo proposito, sono più curioso di pensare all’acustica piuttosto che al suono, di pensare cioè agli arrangiamenti e ai costrutti acustici che potremmo fare per consentire le articolazioni e i movimenti dell’ascolto, delle relazioni, i poteri dell’attenzione, soprattutto in termini di acquisizione delle possibilità di coalizione. Ritengo che la consapevolezza acustica, l’impegno acustico riguardino la creazione di condizioni per l’ascolto. Questo potrebbe essere visto come una forma di ospitalità, per esempio, un’abilità acustica che accoglie e permette a voci e punti di vista diversi di risuonare, che si occupa di o interrompe particolari forme di orientamento, oppure, che può dare trazione al movimento di certi ritmi, soprattutto quando si tratta di facilitare o stimolare particolari sincronizzazioni o allineamenti. L’acustica come supporto, ovvero quello che potrei chiamare “il benessere acustico” (in contrasto con il malessere sonoro).
Qual è stata la tua esperienza come artista in forme d’arte partecipative? In che modo il pubblico risponde individualmente, come corpo di interazione e collettività nel contesto di un progetto pubblico o urbano? L’impulso all’attivismo nei contesti artistici è rimodellato secondo i bisogni dei nostri giorni? Se sì, in che modo?
Ho vissuto per lo più interazioni molto positive ed edificanti con le persone in occasione dello sviluppo e della presentazione di progetti pubblici. Ovviamente si presentano molte sfide, in termini di negoziazione dello specifico contesto e di ricerca di risorse e modi per coltivare collaborazioni. Nell’approcciarmi al lavoro pubblico, infatti, solitamente mi avvalgo di collaborazioni, coinvolgendo altre persone nel processo e creando legami con l’ambiente o la comunità locale. Questo è fondamentale per il mio approccio complessivo, in termini di comprensione del lavoro come generatore di relazioni, ma ciò non significa ignorare che spesso i progetti richiedono un certo sconfinamento. Ritengo che gli artisti debbano dimostrare un certo coraggio nel superare il confronto, o per lo meno non rifuggirlo. Il punto è rimanere sensibili, procedere in modo più o meno reattivo. Per quanto mi riguarda, affronto l’attivismo con una posizione di radicale apertura, ovvero il rifiuto di escludere. Quindi, sento che il lavoro che sto facendo, o che sto cercando di fare, sia in situazioni pubbliche che private, è guidato da questo atteggiamento, che porta a concentrarsi sulla promozione di particolari tipi di interazioni, di un processo speculativo, sempre seguendo ciò che può emergere lungo il cammino. Mi ci appresto meno attraverso un quadro di «impegno sociale», e più attraverso un’idea di «finzione sociale». Alla fin fine, faccio una forma di teatro sperimentale, dove metto in scena un particolare allestimento, una sceneggiatura, un quadro poetico, che poi agisce per mettere in moto le persone e le cose. Ciò che emerge da tale processo poi sfugge in parte dal mio controllo, come è giusto che sia, ma spero possa andare nella direzione di un senso per il potere erotico della vita condivisa.
Qual è la «repubblica immaginaria» (Imaginary Republic) e perché è collegata alle comunità in transizione nel nostro contesto globalizzato?
Credo che la repubblica immaginaria risieda nella poetica: la poetica intesa come «resistenza differenziale alla chiusura», come dice Fred Moten. La poetica è un movimento, è movimento, e afferra ciò che può lungo il cammino; crea, inventa connessioni, trabocca di vitalità e diffonde vitalità. È la base stessa per la creazione di mondi, di nuove lingue, di una comunità impossibile. Tendo quindi a pensare che la poetica, in quanto strettamente connessa all’immaginario, sia alla base delle forme di socialità, persino delle strutture organizzative, della politica e della scuola. Perché c’è sempre immaginazione nella costruzione della forma e, a volte, un’immaginazione piuttosto inquieta, soprattutto in termini di lotta per l’emancipazione. La Repubblica Immaginaria, come progetto a cui sto lavorando da alcuni anni in collaborazione con molti altri artisti, cerca di catturare questo senso di poetica e il mondo facendo gesti eseguiti per istituire, ad esempio, reti di cura, politiche cooperative, centri autogestiti, pedagogie sperimentali, festività radicali, atti nascosti di ospitalità e resistenza. Mi interessa il rapporto tra la poetica, come movimento selvaggio, e l’istituzione di strutture sociali e collettive, di modi di vivere, per riunirle e dare vita a strane composizioni. La Repubblica Immaginaria cerca di mettere in discussione le situazioni che ci circondano, dando spazio a gesti selvaggi. Questo si collega a ciò che Dimitris Papadopoulos chiama «organizzazione ontologica», ovvero che all’interno di scene o situazioni di movimento sociale, o di organizzazione collettiva, possiamo identificare una tendenza verso attività di world-making; e che i movimenti sociali, ad esempio, non si basano solo su attacchi frontali a un sistema esistente, ma anche sulla creazione e l’istituzione di altri comportamenti, altri modi di vivere che emergono in e da particolari lotte. L’organizzazione ontologica potrebbe essere vista come un tipo di finzione sociale che poi ci si trova a sostenere: la costruzione di un’altra narrazione, che permette di articolare altri modi di vivere.
[1] Silvia Federici, Beyond the Periphery of the Skin: Rethinking, Remaking, and Reclaiming the Body in Contemporary Capitalism (Oakland: PM Press, 2020), 120.
[2] Federici, 123.
immagini: (cover 1) Brandon LaBelle, «The Human Strike», 2018, presentazione live al Anti Club, Quebec City, con Marc-Antoine Cloutier, Stéphanie Letarte, Fanny Levy, Emmanuel Delly, e Avatar (2) Brandon LaBelle, «The Free Scene», 2017, La Tabacalera, Madrid. Movement research lab con Vicente Colomar, Annie Pui Ling Lok, Catalina Mahecha, África Clúa Nieto (3) Brandon LaBelle, «The Autonomous Odyssey (con Octavio Camargo)», 2018. Scene #5, filmata nello spazio di teatro alternativo Sala 603, Curitiba, conRaquel Rizzo (4;5;7) Brandon LaBelle, «The Pirate Machine», 2016, come parte di The Imaginary Republic, Tag Team, Bergen (6) Brandon LaBelle,«The Floating Citizen», 2018, TEA Tenerife Espacio de las Artes. Con i performer: Judit Mendoza Aguilar, Gabriela Alonzo, Sandra Simancas Punzón, Silvia Hernández Delgado, María Isabel Hernández Diaz, Paula Pérez Martín (8) Brandon LaBelle, «The Open Body», 2019. Live performance presso il Museum of Solidarity, Santiago de Chile. Performer: Catalina Tello.