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Home News Focus

Intervista | Adonay Bermúdez

Non c'è posto per le verità universali nella pratica curatoriale

Kisito Assangni by Kisito Assangni
08/06/2021
in Focus, Interview
Intervista |  Adonay Bermúdez
Kisito Assangni prosegue la sua ricerca sulla pratica curatoriale come storia fenomenologica della quotidianità, questa volta in conversazione con Adonay Bermúdez.

Kisito Assangni: La pratica curatoriale genera conoscenza? 

Adonay Bermúdez: La pratica curatoriale è uno strumento che permette di analizzare e comprendere realtà date. La considero un generatore di conoscenza, che va oltre la specificità dell’arte come oggetto di piacere estetico. Il mio lavoro approccia diversi campi del sapere, dalla sociologia all’istruzione, dove le pratiche artistiche possono aprire nuove prospettive. Per esempio, il mio ultimo progetto, Desobediencias y resistencias (Disobbedienze e resistenze), è una riflessione sulle diverse forme di violenza (sia istituzionalizzata che sociale) e sulle possibilità di emancipazione che l’esercizio della disobbedienza può comportare, soprattutto quando entra in gioco il corpo. Per me la pratica curatoriale rappresenta la scusa perfetta per capire meglio il mondo in cui vivo.

Esiste una verità universale nella pratica curatoriale? O ciascuno ha la propria opinione personale? 

Non c’è posto per le verità universali nella pratica curatoriale. Quando si favorisce una sola narrazione, si annullano o si rendono invisibili le altre. Come curatore, se dovessi mettere da parte qualche narrazione, non sarei onesto, sincero, realista o rispettoso. È possibile che il mio pensiero sembri un po’ utopico, ma io difendo un’arte (e quindi una pratica curatoriale) democratica, inclusiva, orizzontale, politica, trasparente, equa, femminista e plurale, e tutto questo contrasta le verità universali imposte dalla tradizione occidentale. Nella mia mente, l’arte e la pratica curatoriale sono posizionamenti soggettivi che si intersecano, condividono e si confrontano in modo dialogico. Ecco perché nel mio lavoro di curatore pongo costantemente delle domande, nonostante l’impatto che le mie proposte iniziali possono avere. Mi interessa intrattenere un dibattito con i diversi visitatori delle mostre, e saranno loro a generare le ipotesi di lettura.

Come affronta le questioni globali e trascendenti legate alla produzione artistica? 

Dico sempre che il mio lavoro di curatore si basa su due pilastri. Da un lato c’è il mio interesse per la democratizzazione dell’arte e, dall’altro, la mia volontà di mostrare le paure e i turbamenti degli esseri umani contemporanei. Il mio lavoro risponde cioè all’attuale contesto di frammentazione sociale caratterizzato, tra gli altri aspetti, dall’inarrestabile ascesa del neoliberismo. Come curatore mi interesso in modo particolare alla dissidenza e ai processi conflittuali che mettono a nudo il sistema oppressivo che incatena la società. Mi avvicino all’arte attraverso eventi o situazioni che si sono verificati negli ultimi decenni e interpello il passato solo per dare risposte a questioni attuali. Non è dunque sorprendente che affronti temi come i flussi migratori, le crisi territoriali, il (post-)colonialismo, la sostenibilità, la violenza o le conseguenze del turismo, e che tutto questo non solo pervada il mio lavoro, ma mi permetta di adottare una posizione di maggiore attivismo, cosa che, credo, si lega anche all’impegno dell’artista di Lanzarote César Manrique, con cui sono cresciuto.

Quali pensi siano le gerarchie inerenti al lavoro curatoriale relativo a collezioni, archivi e opere d’arte contemporanea? C’è qualcosa di giusto o sbagliato nell’idea di una pratica curatoriale che abbia una prospettiva assolutamente pluralista? 

Cerco sempre di mettere in discussione i rapporti gerarchici, sia all’interno che all’esterno del sistema dell’arte. Preferisco parlare in termini di orizzontalità, trasversalità e pluralità. Non sono mai stato un curatore politicamente corretto e spesso aggiro molti di quei codici, espliciti o meno, che collocano in modo gerarchico l’istituzione, il curatore, gli artisti e il pubblico. Ho creato composizioni impossibili a priori da una prospettiva accademica e, anche se non sempre sono stato nel giusto, l’ho fatto con la massima libertà possibile e con l’obiettivo di crescere come curatore. Ho sempre difeso il potenziale operativo dell’errore e del rischio, che implica soppesare diverse opzioni relazionali.

Prendi in considerazione i tuoi pregiudizi e limiti culturali, ne sei consapevole. Come li gestisci all’interno della tua pratica curatoriale? 

Qualsiasi processo di ricerca comporta una trasformazione personale: io cerco di mettermi in discussione e di rompere con tutte le aspettative nei miei confronti. In quanto uomo bianco, europeo e appartenente alla classe media. Ho ereditato una visione del mondo molto specifica, che fortunatamente ho cambiato nel tempo. Questo è successo, in parte, grazie al mio stesso lavoro, che ha richiesto il mio coinvolgimento in dibattiti su studi femministi, di genere, post-coloniali o subalterni. Da oltre dodici anni, lavoro con artisti di diverse latitudini, cercando di avere uno sguardo sulle periferie, curiosando ai margini della storia o proponendo modelli collaborativi. In altre parole, cerco di essere coerente con me stesso, con le idee che difendo come cittadino. Certo, non è facile: inciampo di continuo e mi rendo conto che faccio degli errori. Credo però che l’importante sia proprio la possibilità di riconoscere l’errore e di imparare da questo, anche quando lo si scopre col tempo e non subito.

Che libri o mostre consiglieresti? 

Durante la quarantena ho letto Curatorial Activism: Towards an Ethics of Curating, di Maura Reilly. Non so se sia dipeso dalla situazione, ma è stato un libro che ha avuto un grande impatto su di me, più di quanto mi renda conto. Penso che per me sia stato una sorta di specchio. Mi ha aiutato a riordinare le idee e mi ha mostrato che la pratica curatoriale può essere esercitata dal punto di vista dell’impegno e della difesa degli ideali. Sono naturalmente cose che già sapevo, ma penso che avessi bisogno di vederle scritte in quei termini, in modo più chiaro.

Adonay Bermúdez (Lanzarote, Spagna, 1985) ha curato mostre presso l’Artpace San Antonio (USA), il Bòlit Centre d’Art Contemporani (Spagna), l’Instituto Cervantes di Roma (Italia), il DA2 (Spagna), il MUDAS – Museo de Arte Contemporânea da Madeira (Portogallo), il Museo de Arte Moderno Chiloé (Cile), il TEA Tenerife Espacio de las Artes (Spagna), il Centro de Arte Contemporáneo de Quito (Ecuador), il Museo de Arte Moderno de Santo Domingo (Repubblica Dominicana) e l’ExTeresa Arte Actual (Messico), nonché la quarta edizione del Ghetto Biennale di Haiti. Inoltre è stato direttore dell’International Video Art Festival Between Islands (2014-2017), curatore ospite a PlanoLisboa 2016 (Portogallo), ha fatto parte del comitato scientifico del festival internazionale di videoarte Over The Real (Italia, 2015, 2016 e 2017), direttore dell’Espacio Dörffi (2017-2018), curatore del Contemporary Art Month di San Antonio (Texas, USA, 2018) e curatore ospite alla Fondazione César Manrique (Spagna, 2019-2020). Ha partecipato a gruppi di discussione, conferenze e workshop al MACRO Museo d’Arte Contemporanea di Roma (Italia), all’Universidad Complutense di Madrid (Spagna), all’Universidade da Madeira (Portogallo) e all’E.N.P.E.G. La Esmeralda (Messico). Bermúdez è vincitore del Gran Canaria Espacio Digital 2020, un concorso dedicato ai progetti culturali, vincitore dell’edizione del 2020 del concorso curatoriale Casal Solleric Línea 2, vincitore dell’edizione del 2021 del concorso Komisario Berriak Tabakalera e dell’assegno di ricerca del CAAM – Centro Atlántico de Arte Moderno (Spagna, 2020), con un progetto che mostra la relazione tra le Isole Canarie e l’Africa attraverso le manifestazioni artistiche che hanno avuto luogo nel secolo scorso.
L’intervista ad Adonay Bermúdez è parte della ricerca di Kisito Assangni sulla pratica curatoriale:
Dialoghi transitori con rinomati curatori che si interfacciano in maniera positiva con le pratiche artistiche grazie a un’assistenza non prevaricante e a metodi pedagogici alternativi, senza perdere di vista la cronopolitica e le esigenze contemporanee nel contesto di più ampi processi politici, culturali ed economici. In questo momento storico, oltre a sollevare alcune questioni epistemologiche sulla ridefinizione di ciò che è essenziale, questa serie di interviste rivelatrici cerca di riunire diversi approcci critici riguardanti la trasmissione internazionale del sapere e la pratica curatoriale transculturale e trans-disciplinare. (Kisito Assangni).
Intervista precedente: Kisito Assangni, Kantuta Quirós & Aliocha Imhoff. Metodologia curatoriale come dialogo inter-epistemico (Arshake, 11.05.2021)

Immagini (cover 1) «Disobedience and resistance», 2021. Artisti: Marina Abramovic, Teresa Correa, Regina José Galindo, Matt Mullican, Jürgen Klauke, Sigalit Landau, Itziar Okariz e Shirin Neshat, Centro Párraga (Murcia, Spagna),per gentile concessione del Centro Parraga (2) «2022: Under destruction», 2020. Casal Solleric (Mallorca, Spagna). Artisti: Lara Almarcegui, Enrique Ježik, Marlon de Azambuja, Sergio Belinchón, Marla Jacarilla, Eugenio Merino, Donna Conlon e Jonathan Harker, Tomás Pizá, Mar Guerrero e Gema Rupérez (immagine). Per gentile concessione di Casal Solleric. (3) «Beyond the wall. Border readings in a state of emergency», 2018. Artpace San Antonio (Texas, USA). Artisti: Luna Bengoechea, Hayfer Brea, PSJM (immagine), Ethel Shipton, Francis Naranjo e Bárbara Miñarro. Per gentile concessione dell’Artpace San Antonio (4) «Who is that man?». TEA Tenerife Espacio de las Artes (Isole Canarie, Spagna). Artisti: Raisa Maudit, Carlos Aires, Jorge García, Manuel Antonio Domínguez, Cyro García, Oier Gil, David Trullo, Acaymo S. Cuesta, Democracia (immagine), Colectivo Daños Colaterales, María Cañas, Eugenio Merino, Daniel Jordán, Martín y Sicilia, David Crespo, Núria Güell, Olalla Gómez e Avelino Sala. Per gentile concessione del TEA (5) Adonay Bermúdez, per gentile concessione di Adonay Bermúdez.

 

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