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How to Disappear

Il cortometraggio realizzato dal collettivo artistico Total Refusal - Robin Klengel, Leonhard Müller e Micheal Stumpf – affronta i limiti di un meccanismo chiuso su se stesso, di un quadro sociale già irreversibilmente compromesso, come quello di Battlefield V.

Jacopo de Blasio by Jacopo de Blasio
09/06/2021
in Focus
How to Disappear

È inutile negarlo: quasi chiunque, almeno una volta nella vita, ha trovato la propria valvola di sfogo negli sparatutto. Non c’è da andarne poi così fieri, ma sono videogiochi che soddisfano in modo chiassoso e confortevole il nostro bisogno di evadere. Provare sensazioni adrenaliniche, infatti, specie se da casa, in tuta e ciabatte, è sicuramente una delle risposte più comuni. Le ambientazioni belliche sembrano rappresentare una via di fuga dalla ruotine quotidiana. Ma allora, com’è possibile consolidare un presunto equilibrio e trovare un po’ di pace in un luogo che ne è la naturale antitesi? E può un videogame di guerra diventare terreno di resistenza e dissenso?

How to Disappear tenta di rispondere a queste domande. Il cortometraggio realizzato dal collettivo artistico Total Refusal – Robin Klengel, Leonhard Müller e Micheal Stumpf – affronta i limiti di un meccanismo chiuso su se stesso, di un quadro sociale già irreversibilmente compromesso, come quello di Battlefield V. Le immagini in CGI mostrano il rifiuto dei protagonisti di adempiere all’obbligo di uccidere. In questo modo, l’algoritmo su cui si regge il gioco stesso viene raggirato. Si aprono spazi critici e scenari inediti. La storia – a lungo taciuta – della diserzione accompagna l’insolito gameplay. La voce narrante instilla il dubbio. La defezione dell’utente rimette in discussione la percezione del conflitto.

Il cortometraggio si apre evidenziando il paradosso insito nel concetto stesso di «giocare» una guerra. Per definizione, si partecipa a un gioco solo su base volontaria, mentre il coinvolgimento in un conflitto armato, almeno nella maggior parte dei casi, non presenta nulla di spontaneo e deliberativo. Allo stesso tempo, i videogiochi sono regolati da condizioni ferree e inviolabili per volontà dei partecipanti stessi. Sono circoscritti nel tempo e nello spazio. L’incertezza del risultato va di pari passo con l’improduttività, poiché nessun risultato ottenuto ha un riscontro tangibile, un valore effettivo all’esterno. Sono quindi fittizi, perché il giocatore è consapevole di trovarsi al di fuori della realtà ordinaria[1].

In tal senso, Battlefield V non è da meno: pur essendo un videogame, una volta effettuato l’accesso, non è più possibile disertare, non si può abbandonare l’omonimo campo di battaglia, di «gioco». Il software esercita il suo potere, intimandoci di ritornare sui nostri passi. Qualora il nostro avatar non ubbidisse all’ordine, verrebbe colpito dall’algoritmo per mano di un esecutore invisibile. D’altronde siamo proprio noi ad accettare la guerra cosi com’è. Prendiamo parte a un conflitto perpetuo, senza ragione, senza un perché. Il mare è un’illusione, l’orizzonte è irraggiungibile, un’utopia. I soldati sono degli automi costretti a ripetere in continuazione gli stessi gesti. Non conoscono la fame, l’inquietudine, non hanno paura. Le molteplici armi a disposizione sono delle protesi di cui non è possibile liberarsi, neanche per un istante. Uccidere ed essere uccisi, non c’è alternativa. In fondo, la rigidità degli schemi narrativi rappresenta un investimento sicuro. La guerra diventa un bene di consumo, è divertente, un prodotto di cui poter usufruire. Per questo non possono esserci disertori: o si sta da una parte o dall’atra. Non sono ammesse incertezze.

Formatosi nell’estate del 2018, il collettivo austriaco si propone di agire negli spazi pubblici virtuali. L’obiettivo è il ribaltamento strutturale del videogame e dei suoi rigidi schemi narrativi. Certo, verrebbe spontaneo dirgli «allora non giocateci», ma forse hanno ragione: è necessario riconsiderarne il potenziale culturale. Non a caso, lo strumento prediletto è il détournment, la deriva situazionista. Guy Debord, infatti, descrive lo spettacolo come <<un rapporto sociale tra persone, mediato dalle immagini>>[2]. I videogiochi – e i social network – sembrano rappresentarne la massima espressione: sono un’opportunità per inoltrarsi nello spettacolo stesso, per entrare a farne parte. Le misure restrittive adottate per affrontare l’emergenza epidemiologica non hanno fatto altro che evidenziarne gli esiti. Nel 2020, il mercato videoludico ha registrato una crescita del 20% rispetto all’anno precedente. Complici le chiusure forzate, gli introiti dell’industria di settore hanno superato – per la prima volta – quelli complessivi di sport e cinema. Eppure i videogiochi sembrano essere un’occasione mancata. Forse sono una risorsa ancora da esplorare.

[1] Caillois, Roger, I giochi e gli uomini, Milano, Bompiani, 2017 (1958), p.26

[2] Debord, Guy, La società dello spettacolo, Bolsena, Massari Editore, 2008 (1967), p. 44

How to Disappear – presentato in anteprima alla Berlinale del 2020 – è oggi disponibile gratuitamente sul canale Vimeo della Lemonade Films.

immagini: (all) Total Refusal (Robin Klengel, Leonhard Müller e Micheal Stumpf), «How to Disappear», 2021, still da video.

Tags: cortometraggiofilmHow do DisappearJacopo de BlasionarrativeschemeshortTotal Refusalvideo game
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