Arshake è lieta di pubblicare, in due parti, l’intervista di Kisito Assangni a Kantuta Quirós & Aliocha Imhoff, parte di una ricerca sulla pratica curatoriale come storia fenomenologica della quotidianità.
Dialoghi transitori con rinomati curatori che si interfacciano in maniera positiva con le pratiche artistiche grazie a un’assistenza non prevaricante e a metodi pedagogici alternativi, senza perdere di vista la cronopolitica e le esigenze contemporanee nel contesto di più ampi processi politici, culturali ed economici.
In questo momento storico, oltre a sollevare alcune questioni epistemologiche sulla ridefinizione di ciò che è essenziale, questa serie di interviste rivelatrici cerca di riunire diversi approcci critici riguardanti la trasmissione internazionale del sapere e la pratica curatoriale transculturale e transdisciplinare.
Kisito Assangni
Kisito Assangni: La pratica curatoriale genera conoscenza?
Kantuta Quirós & Aliocha Imhoff: Negli ultimi quindici anni circa, considerare lo spazio dell’arte e della pratica curatoriale come ambiente privilegiato per la produzione di sapere è diventato un ritornello ripetuto fino alla nausea, oltre che un potente paradigma centrale nelle pratiche artistiche e curatoriali e nella teoria dell’arte. Quella che alcuni hanno chiamato una «svolta discorsiva» ha visto nascere forme in cui progetti artistici, ricerche teoriche, forme di conoscenza, pedagogia ed esposizione, grazie al lavoro degli artisti e alle piattaforme curatoriali, si mescolano fino a non essere più distinguibili. Nello specifico, le discipline umanistiche si sono trasformate in risorse importanti per la stessa produzione artistica e sono diventate, nella cornice di questa svolta, terreni fertili per l’arte, identificandosi con la ricerca extradisciplinare e rinnovando le metodologie scientifiche al di fuori dell’ «ambito» dei campi disciplinari. L’arte viene quindi vista meno come disciplina e più come luogo dove si inventano «tecnologie intellettuali» attraverso nuove strutture e nuove tecniche di scrittura e descrizione capaci di condurre a una riflessione critica sull’impensato e sui punti interrogativi delle scienze umane e sociali, della filosofia e della politica. Questa componente extradisciplinare va considerata, a maggior ragione, un modo di concepire l’arte come agente trasversale e luogo di intervento singolare. I difensori di questa possibile extradisciplinarità potranno inoltre vedere in questo agente trasversale il sito di una certa resistenza alla riduzione formale del «linguaggio universitario» e alla «fabbrica del sapere», come la chiamava il teorico dell’arte Gerald Raunig, che l’istituzione universitaria sarebbe diventata nel contesto delle nuove economie della conoscenza.
L’arte orientata alla ricerca, nella sua dimensione estremamente critica dei rapporti tra produzione del sapere e potere, verrebbe dunque vista come una sorta di spazio franco, libero dai precetti dell’ambiente scientifico (metodologie del vigore, produzione accademica, e, per quanto riguarda le scienze dure, concorrenza tra laboratori di ricerca, finanziamenti privati che influenzano le modalità di ricerca, ecc.), avvicinandosi così a questa disobbedienza epistemologica teorizzata dagli studi decoloniali o, ancora prima, all’anarchismo epistemologico invocato da Paul Feyerabend nel 1975, avverso a ogni logica disciplinare.
Le condizioni stesse della produzione di sapere sarebbero così intrappolate, più in generale, tra un certo utilitarismo liberale da un lato e, dall’altro, il suo contrario, ovvero il massimo ampliamento dei suoi possibili luoghi di enunciazione. La questione di ciò che produce o non produce conoscenza, di fatto, è stata messa in crisi profonda dall’università stessa. Stando allo storico Christian Jacob, per citare un esempio, che nel 2007 ha pubblicato l’importante serie di opere intitolata «Places of Knowledge», stiamo assistendo a un’espansione massima degli ambienti che generano sapere, dai luoghi di lavoro, alle lotte, alle forme di comunità, ecc., fino ai siti di produzione del sapere. Ciò che si potrebbe ancora definire «sapere vernacolare», o «forma artigianale» di produzione del sapere è stata gradualmente messa in crisi profonda dal sapere femminista e dagli studi postcoloniali, ma anche, in una fase precedente, dal sapere operaio, per esempio.
Il punto di svolta nella ricerca della pratica curatoriale è così diventato il luogo di espressione di questo divario. Viene postulato lo spazio dell’arte come Zona Autonoma di Ricerca, come forma di Parresia, nozione ripresa da Michel Foucault (lo spazio dove sarebbe possibile dire tutto senza vincoli e cornici istituzionali), come luogo di ricerca-azione che manca dolorosamente all’università, come spazio di esposizione e circolazione del sapere locale, vernacolare, luogo-specifico, indigeno, nella sua espressione più diretta.
In seguito alla realizzazione di numerosi progetti (simposi, mostre, laboratori, ecc.) che abbiamo portato avanti negli ultimi anni all’interno della struttura curatoriale, la sfida riflessiva dell’atto curatoriale come palcoscenico e officina del sapere è diventata centrale nella nostra pratica. Benché si ammetta spesso che l’esposizione della ricerca sia prima di tutto una restituzione della ricerca in campo visivo in forma narrativa e spaziale, la svolta curatoriale research-based è rivolta, in termini più ampi, a una riflessione sulle forme di conoscenza e sulle competenze specifiche sviluppate nel corso della storia della pratica curatoriale. Difatti, se gli studi curatoriali spesso si limitano allo studio delle mostre, possono essere considerati in modo più ampio e, riprendendo ad esempio Paul O’Neill, le pratiche discorsive (colloqui, forum, piattaforme di discussione, workshop, scuole temporanee, ecc.) possono essere concepite come altrettanto rilevanti per l’attività curatoriale, andando oltre i paradigmi storici della medesima e superando il solo aspetto espositivo e scenografico delle opere d’arte. Allo stesso modo, sarebbe necessario rivalutare come tali forme fittizie di pratica curatoriale come il museo immaginario, rivisitato da Georges Didi-Huberman, per esempio, o le forme di museo fiction e altre simulazioni concepite dagli artisti come atti curatoriali.
Quindi cos’è la pratica curatoriale? Una definizione temporanea che superi la semplice esposizione di opere d’arte potrebbe essere, in soldoni, un collegamento di prassi e dialoghi che produce cartografie cognitive. Sembra, infatti, che ciò che chiamiamo pratica curatoriale (che incrocia l’autorità scientifica, secondo la filiazione storica del curatore museale, e l’autorialità, secondo il paradigma del curatore-autore, giocando talvolta su questo doppio status) sia soprattutto una questione di connessione, spazializzazione, revisione, sistemazione e traduzione, che potremmo qualificare come pratiche interstiziali.
È necessario ricordare che la ricerca, dal canto suo, è un processo. Bruno Latour ci ricorda che «se la scienza è il territorio della certezza, la ricerca è quello dell’incertezza. Se la scienza è fredda, diretta e distaccata, la ricerca è calda, partecipata e rischiosa». Così considereremo l’avvicinamento tra incarico e ricerca non come una forma di fredda restituzione di un sapere prestabilito, ma piuttosto come un’officina fumante del sapere.
È per questa ragione che negli ultimi anni abbiamo curato eventi (simulazioni di congressi diplomatici, assemblee e processi immaginari, come The Accelerationist Trial, Centre Pompidou, 2014; Beyond the Magiciens Effect, 2015, Fondazione Gulbenkian; The Government of Times, 2016, Halle 14 Lipsia; A Migrant Constituent Assembly, Centro Pompidou, 2017; The Trial of Fiction, 2017; What Are They Asking For? To Become Something, Biennale di Lione, 2019) cercando di produrre questa scenografia del sapere, di farci curatori di questa teoria.
La sfida per noi è considerare la metodologia curatoriale come dialogo inter-epistemico tra i linguaggi della ricerca, del mondo e dell’arte, sulla scia del pensiero del sociologo portoghese Boaventura de Sousa Santos, che difendeva, in contrapposizione alla «monocultura del sapere» e sulla base della nozione ancora nota di epistemologia del sud, le «nuove relazioni tra diversi tipi di sapere», che egli definirebbe come nuova «ecologia del sapere». La diversità epistemologica del mondo, notava il sociologo, è ancora tutta da costruire. Questa ecologia del sapere si propone di integrarne le forme escluse dalla condivisione moderna, andando contro il paradigma dell’esistenza di una sola forma di conoscenza e «sulla base sull’idea che non ci sia conoscenza o ignoranza nell’assoluto». Allora questa ecologia del sapere abbraccia non solo, e in modo non gerarchico, il sapere scientifico, popolare, indigeno, ma anche, potremmo aggiungere, le forme di conoscenza prodotte dagli artisti, quelle non testuali come quelle visive, che verrebbero messe in relazione.
È in questa ecologia del sapere che, a nostro avviso, si inserisce la pratica curatoriale. La proposta di Sousa Santos, insistendo sulla nozione di ecologia (nel senso di ecosistema) piuttosto che su quella di conoscenza storica, ci offrirà una forma di spazializzazione del sapere, sulla scia di autori decoloniali come Walter Mignolo con la sua Geopolítica del conocimiento, e quindi, una politica spaziale del contemporaneo.
Ciò che intendiamo con metodologia curatoriale è anche un modo di tracciare mappe, non per limitare, per chiudere, ma per moltiplicare il sapere proveniente da vari orizzonti. Scriveva Deleuze che «la teoria non funziona per somme, si moltiplica più e più volte», e noi considereremo la ricerca curatoriale come un modo per mettere a confronto pratica e teoria, per metterle reciprocamente alla prova. Questo atto è orientato a identificare e valutare la proliferazione di proposte teoriche e plastiche che abitano la nostra contemporaneità, cercando senza sosta di moltiplicarle tra loro, in contrapposizione con l’impotenza politica che stiamo vivendo soprattutto in Europa, e verso l’orizzonte di una biforcazione collettiva.
… to be continued…
immagini: (cover 1) John Akomfrah and the Black Audio Film Archive, «The last Angel of History», 1995, © John Akomfrah (2)Aliocha Imhoff & Kantuta Quiros, © Le peuple qui manque (3)Josh Rios, «Not Peaceable and Quiet», 2019. Performance at the School of the Museum of Fine Arts at Tufts University, Boston. © Josh Rios
Aliocha Imhoff & Kantuta Quirós sono curatori, teorici dell’arte, registi con base a Parigi. Sono anche fondatori e direttori della piattaforma curatoriale le peuple qui manque, creata nel 2005 e attiva tra arte e ricerca con mostre, simposi e festival. I loro progetti sono stati presentati, tra gli altri, al Centre Pompidou, Parigi; Konsthall C, Stoccolma; Rebuild Foundation, Chicago; Halle 14, Leipzig; Biennale de Lyon; Nuit Blanche, Parigi. Hanno pubblicato Les potentiels du temps (Manuella Editions, 2016, con Camille de Toledo), selezionato tra i 10 saggi più belli del 2016 da Les Inrocks e Histoires afropolitaines de l’art, Revue Multitudes 53-54 (2014). Membri del board editoriale della rivista Multitudes, the Nuit des Idées, sono stati residenti presso la Rebuild Foundation (Chicago South Side, 2015) e Ateliers Médicis (2018).
Kantuta Quirós è nato a La Paz, Bolivia. Ha ottenuto un PhD in Estetica all’Università di Parigi1 Panthéon Sorbonne, con la direzione di Jacinto Lageira. E’ stata lecturer associato presso l’ Ecole Nationale Supérieure d’Architecture a Nantes per gli scorsi sei anni dove ha insegnato estetica e teoria dell’arte. Ha tenuto diverse posizioni istituzionali, notoriamente dal 2007 al 2011 nel Film Department del Musée Nationale d’Art Moderne / Centre Pompidou.
Aliocha Imhoff è nato a Parigi. Ha ottenuto un PhD in Arte e Scienze dell’Arte. La sua tesi di dottorato si intitola «Who Speaks? Politics and Poetics of Enunciation in the Age of the Anthropocene /Chi Parla? Politiche e poetiche dell’enunciazione nell’era dell’antropocene” (University of Paris I). Ha anche ricoperto cariche istituzionali al Centre National des Arts Plastiques e, attualmente, insegna presso l’Università Paris 1 Panthéon Sorbonne.