Federica Di Carlo (1984) racconta del suo lavoro, da sempre attento alla natura e alla sua percezione, dimensione dove cercare spiragli verso nuovi campi di conoscenza. In particolare, si sofferma sulla sua esperienza con scienziati e fisici di tutto il mondo per realizzare le sue installazioni, inclusa quella di Montpellier presso il Bureau des Arts et Territoires, dove ha recentemente concluso una residenza d’artista nell’ambito del progetto Europeo The Spur ETACEC 16-18, in partnership con Atelier Brousse.
Nel tuo statement affermi che con il tuo lavoro cerchi di ‘riconnettere gli umani con l’osservazione e la percezione della natura’. ‘Osservazione,’ ‘percezione’ e ‘natura’. Possiamo soffermarci su questi termini considerandoli nell’ambito di una natura dove l’ibridazione di organico e inorganico è ormai un dato di fatto? Cosa significano per te?
‘Osservazione,’ ‘percezione’ e ‘natura’, sono stati da sempre per l’uomo gli strumenti base per tentare di comprendere il segreto della vita. Attraverso di essi questo piccolo essere si è così tanto «evoluto» che a seguito delle Rivoluzioni industriali si è convito che lui e la natura fossero entità separate. Ha innalzato dei confini mentali, poi fisici, ne ha stravolto linguisticamente il senso fino a scaraventarsi in un mondo post-naturale. Per rispondere a cosa vogliono dire per me queste parole, mi viene in mente l’incredibile frase che ha scritto Schopenhauer e che ho utilizzato in una delle mie installazioni:
«Ognuno prende i limiti del suo campo visivo per i confini del mondo» (Parerga e paralipomena, 1851)
Attualmente, sto leggendo un vecchio testo di Timothy Morton, Ecology without Nature. L’introduzione alla sua nuova idea di ecologia si libera e ‘trascende’, la parola e il concetto di ‘natura’ come condizione necessaria per ‘ripensare’ le estetiche ambientali.
Morton parla di presa di consapevolezza rispetto all’Antropocene, che è oggi, che è ora. E’ necessario appunto sostituire il guardare con l’osservare, riattivare l’istinto perduto e riconnetterlo con la coscienza. Assimilare che siamo noi gli agenti geologici che stanno modificando i processi fisici della terra, che questa crisi climatica, che questa crisi della Natura è anche una crisi dell’immaginazione della cultura. Una crisi dell’Arte.
Dunque, più che trascenderla, oltrepassarla, direi che un termine che ci renderebbe «liberi» potrebbe essere ‘rettificare’. Rettificare l’idea, che nell’ultimo secolo l’uomo ha inventato, l’idea di una natura pacata, affabile, ferma che non metta mai in discussione le consuete abitudini borghesi. La Natura stessa ci sta rettificando.
Sempre nella sua introduzione ad Ecology Without Nature, Morton sostiene che ‘la riflessione teorica può prender piede solamente se il pensiero decelera’. Questo mi fa tornare in mente la nostra chiacchierata informale, quando parlavamo di ricerca e di metodo di ricerca…
Come ti raccontavo, a dicembre ho terminato la residenza europea The SPUR project in Francia a Montpeller presso il Bureau des Arts et Territoires. Rispetto ad altre esperienze che avevo fatto, come l’anno precedente al MASS MoCA dove era richiesta una produzione finale, questa volta ho avuto il privilegio di fare realmente ricerca assieme agli scienziati per due mesi pieni.
Mi sono ricordata di cosa volesse dire decelerare. La possibilità di tornare a studiare con un tempo diverso, di lasciare decantare il pensiero per far emergere riflessioni autentiche era diventata un’urgenza impossibilitata dai continui appuntamenti e scadenze. In questa inaspettata condizione, mi sono domandata se anche il pensiero come la vita corporea di un artista non rispondessero ai principi newtoniani della dinamica.
Alla fine sono giunta alla personale conclusione, che in questo periodo storico di fortissime transizioni sia necessario riappropriarsi di un tempo giusto per pensare ai contenuti culturali, scientifici, ecologici, filosofici ecc.. che mettiamo al mondo. Come possiamo produrre un pensiero forte, se non abbiamo il tempo di pensare? Quanto più acceleriamo, tanto più avremo bisogno di rallentare.
Da quando ti sei interessata a questi argomenti ad oggi, cosa è cambiato nel ‘tuo’ modo di percepire la natura?
Da bambina nella casa di famiglia in Emilia Romagna passavo torridi pomeriggi estivi ad osservare il sistema eusociale delle formiche, ne seguivo i percorsi, a volte li tracciavo su un foglio per capire. Capire cosa poi, non lo sapevo ancora. Si potrebbe dire che come essere umano ho sempre avuto una forte curiosità, una passione per il funzionamento del mondo, in seguito soprattutto per la -fisica- che non vuol dire altro che –natura. Ho continuato ad applicare inconsciamente questa modalità nella vita, come nella ricerca artistica e questo ha portato alla consapevolezza di non essere lo spettatore di una natura silente, bella, accogliente … sottomessa. Ma di essere io stessa natura e di ricordarmi quanto più possibile che la ‘Natura’ non è gentile, non è cattiva, è indifferente ed in costante evoluzione.
Per descriverla con le parole di Finnegan (surfista e scrittore) quando parla del suo rapporto con l’onda:
«In mare, ogni cosa è legata in modo indissolubile e inquietante a tutte le altre (..) Tuttavia le onde non sono vive, non sono esseri senzienti, e l’amante che ti protendi ad abbracciare senza alcun preavviso può rivelarsi un’assassina. Ma non è che ce l’ha con te, quell’onda mortale che si sbudellava sull’ inside non è malvagia… L’amore per le onde è un amore non corrisposto, a senso unico. Questo è il punto».
Esplori la natura e i confini del visibile con particolare attenzione alla percezione. Che ruolo gioca, secondo te, la percezione nel rendere la realtà concreta? Cosa significa ‘realtà’ per te?
Indicare la totalità di ciò che costituisce il «fuori».
Con una serie di lavori, come Untitled /The Umbearable lightness of being (Mass MoCA, 2016 e Roma, Swiss Institute, 2017), ti sei avventurata nella dimensione del ‘confine’ con tutto ciò che ruota attorno al suo passaggio, al suo controllo, e anche alla sua distruzione. Ora, hai portato avanti questa ricerca, oltre che attraverso letture, anche in dialogo con fisici e scienziati. Hai appena concluso un’esperienza di residenza a Montpellier. Ci puoi dire cosa di nuovo il proseguimento di questa tua ricerca ha portato attraverso nuovi interlocutori?
La mia ricerca artistica gravita attorno a questo concetto così ampio in maniera autonoma. Il confine del mio corpo, il mare come confine, il confine dell’universo. Tutto quello che esiste è un confine se inteso in maniera libera, specialmente la luce che ritorna sempre dentro alle mie opere.
Il corpo lavori Untitled /The Umbearable lightness of being nascevano dall’urgenza di raccontare attraverso una violazione di confine tra l’uomo e l’atmosfera terrestre, la nostra violazione emotiva. La residenza a Montpellier doveva essere un proseguimento della mappatura su territorio francese di questi cieli spezzati. Invece, come spesso accade quando si indaga, mi sono ritrovata a guardare molto più in là del mio naso. Ho collaborato simultaneamente con scienziati che osservavano e attraversavano l’atmosfera del nostro cielo da due punti di vista completamente opposti e che tra di loro non avevano mai comunicato: gli astrofisici del Laboratoire Univers et Particules de Montpellier, che guardano con i telescopi dalla terra verso l’universo e gli ingegneri della Station de Réception Directe GEOSUD – Maison de la Télédétection – Pôle IRD, che con i satelliti osservano dall’universo la terra.
Questa doppio sguardo ha creato una nuova visione d’insieme per cui a fine residenza, anche se non ero obbligata, ho sentito di voler restituire una ‘azione artistica’ alla città e alle persone che mi avevano accolta e ispirata.
Dopo una serie di difficoltà, sono riuscita a far aprire al pubblico, solo per una notte, la Tour de la Babote, la prima torre medioevale astronomica della città sede della Société Astronomique de Montpellier. Potevano entrare solo piccoli gruppi alla volta, la maggioranza della gente non l’aveva mai visitata internamente. Ad accoglierli al primo e al secondo piano sapevano che avrebbero incontrato degli scienziati in camici blu con i quali dialogare partendo da tre domande: Che cosa è un confine? / Che cosa è il blu? / Che cosa è la ricerca?
In fondo ho ri-donato alle persone la mia residenza, mettendoci dentro le mie domande, i miei interlocutori e il privilegio di essere stata accolta come artista straniera all’interno della “torre che guarda al cielo”.
Come definiresti lo scambio tra arte e scienza? E’ possibile sintonizzare questi due linguaggi su una stessa frequenza? Se si, come?
«È probabilmente vero in linea di massima che della storia del pensiero umano gli sviluppi più fruttuosi si verificano spesso ai punti d’interferenza tra due diverse linee di pensiero. Queste linee possono avere le loro radici in parti assolutamente diverse della cultura umana, in tempi diversi e in ambienti culturali diversi o di diverse tradizioni religiose; perciò, se esse realmente s’incontrano, cioè, se vengono a trovarsi in rapporti sufficientemente stretti da dare origine a un’effettiva interazione, si può allora sperare che possano seguirne nuovi e interessanti sviluppi». (Heisenberg)
Credo che quello che scrisse Heisenberg allora, rifletta esattamente la necessità di oggi. La necessità di un’interferenza volontaria, di un ritorno tra arte e scienza, poiché in fondo entrambi mondi si nutrono d’immaginazione. Gli scienziati come gli artisti dedicano la propria vita ad immaginare l’impossibile. Semplicemente si è creata una sorta di divisione in compartimenti stagni dei ruoli e delle responsabilità nell’arco dei secoli. Adesso in questo stato di collasso generale si stanno risintonizzando le antenne, c’è una nuova-vecchia volontà di ascolto.
Mi capita spesso per le mia ricerca artistica di trovarmi in mezzo ad ambiti scientifici, (come INAF, MIT, CERN ecc.), e capire che come noi siamo affascinati dai loro numeri, dalle loro deduzioni, leggi fisiche… viceversa, loro sono rapiti dal modo in cui l’arte prende, capta, anticipa le stesse e le sintetizza in opere visibili. Molti dipartimenti scientifici, aziende che lavorano con la tecnologia invitano artisti a partecipare alle ricerche, ad apportare la loro visione. L’ibridazione tra arte e scienza si sta trasformando in una tendenza se vogliamo, in un canale da sfruttare o in un nuovo canale di scoperta.
Tornando alla residenza di Montpellier, cosa ti aspettavi di trovare e cosa hai trovato effettivamente?
Montopellier è stata una rivelazione, non solo per la bellezza della città ma per le opportunità che mi sono state date. Non conoscevo il sistema artistico francese, in realtà la Francia non mi aveva mai attirato, ne sono rimasta positivamente colpita. Gli artisti esistono per lo Stato che li supporta, riconosce il loro contributo culturale come un valore aggiunto e questo rende la ricerca artistica e culturale agevolata.
Durante i due mesi di residenza, sono andata a domandare ai cittadini e agli scienziati del luogo come mai questa città fosse considerata blu. La maggior parte delle risposte sono state: «per il colore del mare e del cielo». Il mare e il cielo sono limiti visibili che uniscono e separano ogni cosa sulla terra; dilatano, restringono, invadono, definiscono lo spazio attorno rispondendo a specifiche leggi fisiche.
Partendo così dal blu, arbitrariamente attribuito alla città di Montpellier, mi sono ritrovata ad interrogarmi su come un colore potesse trasformarsi in un confine e come viceversa, dei confini fisici naturali come cielo, mare e atmosfera potessero modificare un concetto. Assieme agli scienziati ho cercato di capire fino a che punto il blu fosse un colore fondamentale all’interno delle loro scoperte e degli equilibri del mondo.
E’ nata così una nuova evoluzione del lavoro dal titolo: Il mare è blu perché tu vuoi sapere perché il mare è blu dove riprendendo un haiku scritto da Jack Kerouac che diceva «Il cielo è blu perché tu vuoi sapere perché il cielo è blu» ho sostituito la parola «cielo» con «mare».
La volontà è stata (è e sarà) quella di attraversare questo colore-confine partendo dalla domanda che sin da bambini viene fatta sul perché il cielo ed il mare siano blu, legata alla legge fisica che governa questa illusione ottica, detta «effetto Raman» (dallo scienziato indiano che ne scoprì il funzionamento nel 1928) per poi approdare a riflessioni poetiche sull’esistenza.
Ci puoi anticipare, anche solo nella direzione di ricerca, il progetto che nasce da questa esperienza?
Uno dei corpi lavori del progetto ‘Il mare è blu perché tu vuoi sapere perché il mare è blu’, si spinge al di là del cielo terrestre. Gli astrofisici del Dipartimento di Particelle dell’Università di Montpellier mi hanno donato delle immagini in B/N di nebulose dell’universo (un agglomerato interstellare di polvere, idrogeno e plasma ‘visibile’ per gli scienziati solo grazie alla luce tra l’altro), prese dai loro telescopi, che io ho manipolato aggiungendo un determinato filtro ‘blu’, per inventare quella che ho definito un’ Atmosfera-marina blu.
Mi piaceva l’idea di visualizzare un’atmosfera che non esiste, dove mare e cielo sono uniti come due amanti. Infine stringevo, accartocciavo le mie atmosfere-marine blu assieme a conchiglie locali simili a fossili o meteoriti, trovate sul litorale francese (simbolo della città), dentro a delle morse fino ad incontrare il punto di rottura, di tensione tra i materiali. C’è in programma di realizzare un’intera installazione ambientale dove dentro una stanza vi ritroverete a passare tra enormi atmosfere-marine blu in equilibrio precario, per interrogarci ancora una volta sulla violazione del confine tra natura e uomo.
immagini: (cover;8) Federica Di Carlo, «The sea is blue because you want to know why the sea is blue», 2017, video frame ( 1) Federica Di Carlo, «The sea is blue because you want to know why the sea is blue», Performance-Tour de la Babote, Montpellier, France. Da sinistra a destra: Piron Frédéric Astrofisico -Expérimentateur CNRS /Reboul Henri Astrofisico – Maître de Conférences émérite Laboratoire Univers et Particules de Montpellier /Lopez Jean Mariepresidente della Società Astronomique de Montpellier/Bernardini Maria-Grazia Astrofisico – Expériences et Modélisations en Astroparticules /Bastien Nguyen-duy Bardakji (ingegnere stazione GEOSUD-Maison de la Télédétection – Pôle IRD (foto 3-4-5) Federica Di Carlo, «Out of the Blue (blue marine atmosphere, vice, shell fossil)», 2017 (foto 6-7-) GEOSUD – Antenne, Maison de la Télédétection – Pôle IRD (foto 8) Federica Di Carlo, «The sea is blue because you want to know why the sea is blue», 2017, video frame.