Prosegue oggi la conversazione di Kisito Assangni con Kantuta Quirós & Aliocha Imhoff, parte di una ricerca sulla pratica curatoriale come storia fenomenologica della quotidianità.
Kisito Assangni: Esiste una verità universale nella pratica curatoriale o ciascuno ha la propria opinione personale?
Kantuta Quirós & Aliocha Imhoff: Benché la contrapposizione tra «sapere universale» e la nozione di «opinione» sia stata ampiamente messa in discussione dalla stessa epistemologia della scienza (da quando Sandra Harding e Donna Haraway, per citarne solo alcune, hanno saputo avviare un profondo processo critico della distribuzione del sapere e delle nozioni di competenza, autorità, oggettività ed enunciazione universale), le pratiche curatoriali sembrano, ancor più dell’università, beneficiare di un doppio stato in termini di ciò che producono, tra scientificità e autorialità. Una mostra è sempre sia un sito per la produzione di sapere relativo alla storia dell’arte, sia uno spazio in cui si effettuano tentativi narrativi radicali, ovvero uno spazio dedicato sia alla produzione narrativa (che rientra nel paradigma del curatore come autore), sia all’esposizione scientifica (prerogativa della figura del curatore museale). Giocando su questo doppio concetto di autorialità e autorità, l’atto curatoriale permette anche il dispiegamento di modalità narrative spesso più complesse e diversificate che nel contesto della scrittura teorica e accademica, rompendo così la dicotomia tra verità immutabili e ciò che sarebbe il risultato di soggettivismo radicale, credenze e opinioni personali.
Come affrontate le questioni globali e trascendenti legate alla produzione artistica?
Per noi si tratta di una questione aperta. Quasi ogni qualvolta cerchiamo di collegare la pratica curatoriale con la ricerca, ci ritroviamo a pensare in termini di «questioni globali e trascendenti». Credo tuttavia che nutriamo una profonda fiducia nella capacità degli artisti proprio di contrastare questa forma di totalizzazione nei problemi odierni del pensiero contemporaneo. Ed è proprio ciò che ci tiene legati a questo luogo fragile, ovvero la capacità delle proposte degli artisti di sorprenderci sempre e di azzerare le nostre aspettative, riuscendo al contempo a soddisfarle appieno.
Nel 2017 Stefan Heidenreich, teorico dell’arte all’Università di Colonia, ha avanzato la solita critica all’autorità curatoriale in un laconico articolo intitolato «Against Curating». Il curatore sarebbe un nuovo despota, perché annetterebbe il significato delle opere alla propria narrazione, una voce superiore che ingloba le micro-narrazioni degli artisti. Stando a Stefan Heidenreich, la pratica curatoriale, oltre a rappresentare un pericolo di strumentalizzazione degli artisti, rischierebbe di essere asservita al consenso politico con produzioni artistiche «a tema». Un certo numero di mostre, il cui messaggio attingerebbe dal calderone del pensiero contemporaneo ma che vorrebbe anche trattare i temi più attuali (emergenza climatica, migrazioni, modifiche del capitalismo, ecc.), potrebbe passare per didascalia omnicomprensiva, un’illustrazione del pensiero contemporaneo.
Ci sembra però che dopo la svolta postmoderna, che ha invitato a una critica delle narrazioni predominanti, l’attuale preminenza della voce del curatore nello scacchiere narrativo del mondo dell’arte sia da leggere diversamente dal predominio sulla scena di una nuova egemonia discorsiva. Cerchiamo di concepire tale preminenza sulla base delle polifonie enunciative che questo nuovo agente metanarrativo, il curatore, ha cercato di immaginare.
Dal nostro punto di vista, i curatori sono coloro che cercano di intrecciare e collegare le opere, nonostante la componente non incasellabile, l’opacità e l’enigma che le opere d’arte portano con sé, a partire dalla loro posizione privilegiata, e molto spesso si oppongono alla figura del curatore dello sguardo. Non si tratta tanto di «temi» o di «questioni» quanto di partire piuttosto dalla sottigliezza e dalla complessità delle elaborazioni enunciative che legano le opere/la produzione artistica. Che nodo enunciativo abbracciano? Come mantenerli parte del tutto, della segretezza, dell’opacità, dell’enigma e dell’irriducibilità?
Vediamo nel curatore un rapsodo che può affiliarsi a scale di narrazione meno soverchianti, a un’attenzione a ciò che è. In Le Miroir d’Hérodote (1980), lo storico François Hartog ha fatto del ricercatore un ispettore e un rapsodo, quel poeta della Grecia antica, quel narratore che va di città in città a decantare i poemi scritti da altri, colui che, nel senso primario della parola, cuce insieme gli spazi, l’agente di collegamento che si occupa senza sosta di collegare gli spazi ai limiti del mondo abitato. Ci piace pensare all’atto curatoriale come a un’operazione di tessitura di storie, la realizzazione, per il mondo, di un costume di Arlecchino. Come ispettore del mondo, il rapsodo non ha una rappresentazione totalizzante e omnicomprensiva del suo percorso. Per lui, lo spazio non si dà come totalità, perché si confronta con un mondo di cui non esiste una mappa a priori. L’idea è di liberarsi dalla propensione della cartografia all’estraniazione sottile, per cercare invece di pensare ai tratti di singolarità delle opere d’arte che stiamo cercando di approcciare e di collegare, cercando di prestare attenzione al particolare legame enunciativo che delineano.
Il curatore come rapsodo potrebbe essere colui che collega le scale tra di loro, senza fingere di conoscere o tracciare l’intera mappa: in una geo-storia discontinua e connessa; il curatore come rapsodo rimarrebbe colui che cerca di tessere e collegare le opere tra loro, nonostante la loro componente non incasellabile, irriducibile. Il curatore come rapsodo resterebbe un raccoglitore di indizi fragili, di tracce lievi, che cerca di trovare la propria strada da interpretare.
Quali pensate siano le gerarchie inerenti al lavoro curatoriale relativo a collezioni, archivi e opere d’arte contemporanea? C’è qualcosa di giusto o sbagliato nell’idea di una pratica curatoriale che abbia una prospettiva assolutamente pluralista?
Se per pluralismo intendiamo il modo in cui i grandi musei occidentali hanno cercato di allargare il canone della storia dell’arte a fenomeni un tempo considerati periferici, sembra, paradossalmente, che questo decentramento si riagganci piuttosto a un nuovo linguaggio geopolitico universale: «l’arte mondiale come lingua franca postcoloniale offerta al mondo dall’Occidente». Questo nuovo «regime geoestetico», citando il teorico dell’arte messicano-americano Joaquin Barriendos, si basa dunque su un profondo paradosso, perpetuando asimmetrie e gerarchie centrali in questa nuova narrazione globalizzata: una frammentazione delle narrazioni, un’apertura agli studi postcoloniali, ai saperi sito-specifici e alle epistemologie del Sud, da un lato, in contrapposizione a un ritorno alla meta-narrazione tanto quanto al museo globale (come ultimo emblema del museo universale) e il dispiegamento della storia dell’arte mondiale come metodologia, dall’altro.
Nel 2015 abbiamo tenuto un’esibizione-simposio intitolata «Beyond the Magician-Effect», proprio contro quest’arte che è allo stesso tempo globale e sito-specifica, e ci siamo chiesti quali altri regimi geoestetici sarebbero stati inventati e imposti negli anni a venire. Si trattava, sotto forma di scenografia diplomatica, di inventare insieme altri possibili regimi geoestetici contemporanei.
Prendete in considerazione i vostri pregiudizi e limiti culturali, ne siete consapevoli, e come li gestite all’interno della vostra pratica curatoriale?
È una domanda affascinante che meriterebbe le venisse dedicato un libro intero, e noi ne stiamo preparando uno intitolato «Who Speaks?», che rivisita le posizioni enunciative che nascono dallo spazio dell’arte, sia in prospettiva storica che ultra-contemporanea. La sfida del libro sarà anche quella di riflettere sull’Antropocene, sull’esigenza di sentire la «voce» dei non-umani, la loro particolare posizione enunciativa. Questo non implica tanto rivendicare, come negli anni Settanta, un «diritto di parola», ma piuttosto una capacità di ascoltare, di tradurre, di essere diplomatici con chi «coniuga i verbi in silenzio», come ha scritto il poeta Jean-Christophe Bailly.
In breve, per rispondere più direttamente, possiamo dire che la domanda «chi parla?», per come è stata posta a partire dagli anni Sessanta, riguarda specificamente l’area tra vita e la morte dei soggetti, ossia tra la proliferazione dei modi di soggettivazione da un lato, con l’emergere di numerosi soggetti di enunciazione possibili dall’altro (femminili, neri, queer, ecc.), in concomitanza con l’affermazione dello smantellamento della nozione stessa di soggetto (che rispecchierebbe sempre rapporti di potere asimmetrici).
Dunque si dovrebbe sempre poter rivendicare posizioni sito-specifiche (un luogo di radicamento culturale, storico, geografico, politico) e allo stesso tempo cercare di spostare la propria soggettività, il che ovviamente richiede un grande lavoro su se stessi. In un certo senso, dovremmo sempre opporre una doppia resistenza: prima all’illusione di un pensiero liberato dalle sue condizioni, poi alla riduzione del pensiero a tali condizioni.
La pratica curatoriale a sua volta gode di una sorta di privilegio, perché può esistere solo nell’elaborazione di forme di conoscenza e soggettività esterne a se stessa (attraverso le opere degli artisti). Le opere, quando sono potenti, riescono sempre a spostare la posizione stessa dell’atto curatoriale, nonostante la sua autorità e padronanza della metanarrativa proposta, mettendolo in crisi e, in un certo senso, è questo che lo rende un atto profondamente perspicace, il luogo della moltiplicazione dei modi di essere nel mondo, il luogo dello spostamento dei propri limiti culturali.
Definire una tensione nella pratica curatoriale, descrivere i suoi attributi e il suo contesto, definire la sua relazione con gli archivi e le evidenze. Ma allora cosa resta da mostrare?
La domanda è davvero interessante. Se abbiamo allestito una serie di «finti processi» dallo spazio dell’arte, è proprio per cercare di rispondere. Ci sembra che la natura stessa di un processo sia quella di ridefinire una serie di relazioni tra archivi, testimonianze, mostre e possibili evidenze. Le evidenze incarnano sempre una rete di indizi e rappresentano quanto viene rimesso in gioco, un costruttivismo precario di cui è sempre possibile ricostruire il percorso per generarne possibili altri a posteriori. Le Procès de la fiction (Il processo della narrativa), per esempio, che abbiamo realizzato nel 2017 a Parigi, trattava della narrativa stessa nel suo rapporto con la verità, con la prova.
Che libri o mostre consigliereste?
Juste au dessus du silence (Appena sopra il silenzio). Una meravigliosa raccolta di poesia della poetessa e attivista anti-coloniale algerina Anna Greki, la prima opera della nuova casa editrice francese Terrasses, che mira a far riscoprire il retaggio di un internazionalismo affrancatore, sostenuto dalla poetica del Sud.
immagini (cover 1)Tania Bruguera, Talking to Power, 2017. Installation view at Yerba Buena Center for the Arts, San Francisco. © Tania Bruguera (2) Krista Franklin, Radiohead, 2011, Collage on antique photograph. © Krista Franklin
Questa la seconda di due parti dell’intervista di Kisito Assangni, parte di una ricerca sulla curatela che consiste in:
Dialoghi transitori con rinomati curatori che si interfacciano in maniera positiva con le pratiche artistiche grazie a un’assistenza non prevaricante e a metodi pedagogici alternativi, senza perdere di vista la cronopolitica e le esigenze contemporanee nel contesto di più ampi processi politici, culturali ed economici.
In questo momento storico, oltre a sollevare alcune questioni epistemologiche sulla ridefinizione di ciò che è essenziale, questa serie di interviste rivelatrici cerca di riunire diversi approcci critici riguardanti la trasmissione internazionale del sapere e la pratica curatoriale transculturale e transdisciplinare.
Kisito Assangni
Kisito Assangni. Intervista a Kantuta Quirós & Aliocha Imhoff. Pt.1 (Arshake, 11.05.2021)
Kisito Assangni è un curatore francese – Tongolese e consulente che ha studiato museologia presso Ecole du Louvre a Parigi. I suoi interessi di ricerca gravitano attorno all’impatto culturale della globalizzazione, alla psicogeografia e all’educazione critica.
I suoi programmi pubblici e le mostre sono state incluse in manifestazioni internazionali. Tra gli altri: Biennale di Venezia; ZKM, Karlsruhe; Whitechapel Gallery, Londra; Centre of Contemporary Art, Glasgow; Museum of Contemporary Art, Sydney; Malmö Konsthall, Svezia; Torrance Art Museum, Los Angeles; Es Baluard Museum of Art, Palma, Spagna; National Centre for Contemporary Arts, Mosca. Assangni è fondatore di TIME is Love Screening – programma di video arte internazionale e advisor curatore presso Latrobe Regional Gallery a Morwell – Victoria, Australia.
Aliocha Imhoff & Kantuta Quirós sono curatori, teorici dell’arte, registi con base a Parigi. Sono anche fondatori e direttori della piattaforma curatoriale le peuple qui manque, creata nel 2005 e attiva tra arte e ricerca con mostre, simposi e festival. I loro progetti sono stati presentati, tra gli altri, al Centre Pompidou, Parigi; Konsthall C, Stoccolma; Rebuild Foundation, Chicago; Halle 14, Leipzig; Biennale de Lyon; Nuit Blanche, Parigi. Hanno pubblicato Les potentiels du temps (Manuella Editions, 2016, con Camille de Toledo), selezionato tra i 10 saggi più belli del 2016 da Les Inrocks e Histoires afropolitaines de l’art, Revue Multitudes 53-54 (2014). Membri del board editoriale della rivista Multitudes, the Nuit des Idées, sono stati residenti presso la Rebuild Foundation (Chicago South Side, 2015) e Ateliers Médicis (2018).
Kantuta Quirós è nato a La Paz, Bolivia. Ha ottenuto un PhD in Estetica all’Università di Parigi1 Panthéon Sorbonne, con la direzione di Jacinto Lageira. E’ stata lecturer associato presso l’ Ecole Nationale Supérieure d’Architecture a Nantes per gli scorsi sei anni dove ha insegnato estetica e teoria dell’arte. Ha tenuto diverse posizioni istituzionali, notoriamente dal 2007 al 2011 nel Film Department del Musée Nationale d’Art Moderne / Centre Pompidou.
Aliocha Imhoff è nato a Parigi. Ha ottenuto un PhD in Arte e Scienze dell’Arte. La sua tesi di dottorato si intitola «Who Speaks? Politics and Poetics of Enunciation in the Age of the Anthropocene /Chi Parla? Politiche e poetiche dell’enunciazione nell’era dell’antropocene” (University of Paris I). Ha anche ricoperto cariche istituzionali al Centre National des Arts Plastiques e, attualmente, insegna presso l’Università Paris 1 Panthéon Sorbonne.