Luca Pozzi parla del suo lavoro ispirato all’incontro tra arte, fisica, cosmologia e computer science e concretizzato attraverso un intenso scambio con la comunità scientifica, dove ritrovare Quantum Gravity (PI), Compact Muon Solenoid (CERN) e il Fermi Large Area Telescope (INFN, NASA). Luca Pozzi a Roma ha appena presentato l’installazione Degrees of Freedom, a cura di Francesca Campana & Giacomo Guidi presso Cotemporary Cluster (31.03 – 02.05.2019), e a breve, il 4 maggio, interverrà al TED quest’anno dedicato alla nuova società 5.0 sotto la spinta della realtà virtuale, aumentata e della tecnologia blockchain.
Elena Giulia Rossi: Come e quando inizia il tuo interesse per la scienza e chi sono i tuoi primi interlocutori?
Luca Pozzi: Nasce da una specie di frattura generazionale che abbiamo vissuto con l’inizio dell’esperienza digitale, con internet i telefoni cellulari e i social networks.
L’interesse per la scienza inizia con la necessità di collegare questi due mondi e di renderli compatibili, di rendere percepibile la continuità tra la materialità macroscopica e l’informazione microscopica dei fenomeni informatici che derivano dalla meccanica quantistica che produce comportamenti apparentemente poco intuitivi.
Siamo proiettati verso una tecnologia che moltiplica e delocalizza la nostra presenza nello spazio e nel tempo, che ci teletrasporta e ci collega a più luoghi contemporaneamente. Questa non è una novità in assoluto. Lo è per noi come esseri umani, ma per le particelle, come gli elettroni è sempre stato così. Le fisica delle particelle ha molto da insegnarci sul comportamento umano nell’era del quantum computing. I miei primi interlocutori sono stati Carlo Rovelli e Abhay Ashtekar della Loop Quantum Gravity Community che ho frequentato dal 2009 al 2015. Grazie alla loro ricerca visionaria ho tentato di immaginare cosa succede nei buchi neri e nel momento del big bang quando le cose grandi e quelle minuscole si incontrano e i comportamenti quantistici e relativistici si sovrappongono unificando l’esperienza a 360°.
La tua ricerca in ambito scientifico va di pari passo con quella che si relaziona con l’arte tradizionale…
L’arte e la scienza si sono da sempre occupate dell’invisibile.
Della realtà dietro le apparenze. Io sono arrivato alla scienza osservando le opere del Rinascimento. Dal Mantegna a Piero della Francesca, da Tiziano al Veronese. La necessità di creare ponti tra lo spazio architettonico e quello pittorico, la voglia di raccontare delle storie stratificate su più livelli temporali, dalla mitologia all’antico e al Nuovo Testamento. Questo atteggiamento lo si ritrova nell’opera di De Chirico che dopo aver creato un linguaggio visivo basato sull’enigma del tempo, inizia a viaggiare nei suoi stessi quadri trasponendosi in prima persona in epoche diverse. Sono famosi i suoi autoritratti nel ‘600. Quando Il Caravaggio dipinge la luce radente che entra dalla finestra ed illumina il pane sulla tavola, leggendone le imperfezioni, la realtà artigianale della texture, è influenzato dai disegni di Galileo Galilei che rappresentano i crateri lunari osservati attraverso i primi telescopi. Questa correlazione a distanza tra le discipline è la cosa più interessante. Non significa che sia diretta e consapevole, è una correlazione che non viaggia per forza linearmente, ma c’è.
Hai partecipato anche alla mostra The Ñewpressionism presso l’Istituto Svizzero di Milano, un nuovo modo di vedere, mettere a fuoco e ritrarre il paesaggio contemporaneo avviato dall’artista visionario Miltos Manetas. Ci racconti di quella esperienza?
Si, ho sentito parlare di Ñewpressionism per la prima volta durante l’Eternal Internet Brotherhood sul Mar Morto nel 2014. Tra Giordania, Israele e Palestina, dove ho conosciuto Miltos Manetas.
Ho subito appoggiato il Ñewpressionism perchè è un esempio perfetto di questa correlazione.
E’ un nuovo impressionismo, basato sull’idea che la rete che crediamo essere prerogativa di internet, fatta di fibre ottiche, rimbalzi di segnali satellitari, server farms, antenne e ruters, in realtà è in tutte le cose. La Natura della rete primordiale, è molto più evoluta di quella informatica. Questo produce un ribaltamento di prospettive, e ci fa apparire il lontano passato come il nostro più evoluto futuro, chiudendo il cerchio e creando un loop temporale che rivaluta la percezione della storia della civiltà umana. Ñewpressionism dimostra come per esempio una lastra di rame specchiante possa essere un filtro di instagram attraverso cui guardare il paesaggio, o come una corda di plastica tesa tra i rami di un albero possa essere un glitch perturbante. Il Ñewpressionism si concentra su questi interventi e meccanismi che diventano filtri mutevoli e cangianti per l’interconnessione di tutti i fenomeni. E’ un movimento artistico, una vera e propria avanguardia storica fatta e alimentata da persone delocalizzate che interagiscono virtualmente da più parti del mondo. Persone che attraverso il loro modo di agire nello spazio e di comunicare con i social networks contribuiscono a costruire un ponte linguistico emergente tra analogico e digitale. Un linguaggio incontrollabile che ritrae un paesaggio moltiplicato dimensionalmente, che è ovunque ma in nessun luogo, che è sempre ma che non è mai, un paesaggio che si trasferisce dalle nostre mani ai nostri schermi, che viaggia attraverso Wormeholes di silicio per connettere universi paralleli intimi ed individuali ad un panorama collettivo mozzafiato.
L’occhio fotografico si è ulteriormente allontanato dal suo oggetto, si nasconde all’interno di software, decide il momento dello scatto autonomamente dall’intenzione umana, a volte coincide con l’oggetto stesso. Come è cambiata la fotografia oggi? Puoi raccontarci del tuo modo di utilizzare la fotografia?
Per me la fotografia è semplicemente un modo per rallentare il tempo.
Non è una forma di documentazione, è solo un modo per osservare la realtà da un punto di vista diverso. Mi ha sempre affascinato l’ idea di trovarci sull’orizzonte degli eventi di un buco nero e di lanciare una mela al suo interno. Dal nostro punto di vista, quella mela resterebbe li sospesa per l’eternità. Ogni volta che guardo una fotografia penso a questo, mi sento comodamente seduto sull’orizzonte degli eventi di un buco nero.
Poi, nell’era dei Big data, tutte le cose tendono ad una ottimizzazione. Attraverso l’analisi dei comportamenti e alla monitorizzazzione dei processi, la tendenza è quella di semplificare. Da una parte i settaggi non vengono scelti da te, ma li fa la macchina fotografica, così da permetterti di concentrarti su altro, sull’esperienza di quello che hai di fronte magari. Ma quando invece la fotografia serve a vedere quello che non riesci nemmeno a immaginare le cose cambiano, anzi si ribaltano proprio. Sei tu che devi settare tutto, fin nei minimi dettagli, che devi programmare la macchina, attraverso calcoli sofisticatissimi.
La fotografia cambia a seconda dalle nostre aspettative.
Pochi giorni fa è stata svelata la prima immagine del buco nero. Come commenteresti questo evento?
Esatto! Questo è un esempio perfetto di fotografia del secondo tipo. E tra l’altro è una fotografia collettiva realizzata dall’Event Horizon Telescope, che detta così sembra un telescopio unico. Invece non lo. Piuttosto, è composto da una serie di telescopi diversi sparsi per il mondo che raccolgono dati, che poi convergono in un’unica immagine realizzata interpolandoli attraverso un algoritmo studiato appositamente sulla base delle leggi della fisica teorica. E’ uno straordinario esempio anche qui di collaborazionismo tra analogico e digitale, dalla matematica alla realtà fisica più misteriosa che riusciamo a concepire, una realtà osservata con la tecnologia del futuro ma che guarda al nostro più lontano passato.
Ci puoi anticipare qualcosa del tuo intervento al TED a Roma il 4 maggio?
Si, sarò ospite del TED quest’anno indirizzato all’uomo della nuova società 5.0 basata sull’intelligenza artificiale, la realtà aumentata, il VR, la block Chain e i Bit coin. Una rivoluzione a 360° che riguarda tutte le discipline, dall’informatica, all’economia, dalla fisica all’arte alla medicina. Io ho impostato il mio intervento su un’intuizione di Sir Archibald Wheeler, un fisico teorico americano, pioniere insieme a Kip Thorn della Gravità Quantistica che negli anni ’80 propone un punto di vista semplicissimo, quasi disarmante. Dice: IT FROM BIT, ogni cosa è informazione, ogni cosa è partecipazione. Da questo punto di vista la domanda se siamo noi al centro dell’universo o è l’universo a essere al centro di noi scompare. Perchè dal punto di vista dell’osservazione non c’è differenza. Il mio talk al TED suggerisce che per essere veramente al centro delle cose dobbiamo allenarci a pensare che non siamo esseri umani che usano l’informazione ma che siamo informazione in movimento. Che viviamo in una specie di labirinto a forma di mandala, dove i granelli di sabbia sono i bit di informazione che saltano come palline da ping pong da una parte all’altra creando la complessità e la bellezza che ci circonda.
Immagini (all): Luca Pozzi, «DEGREES OF FREEDOM», Contemporary Cluster, Rome (31.03.02.05.2019), installation view. 2019. Photo Credit: Franscesco Casarin