È innegabile che il concetto di metaverso crei curiosità e fascino nella maggior parte delle persone. Un universo metafisico che supera il concetto di realtà analogica con l’utilizzo degli strumenti tecnologici di realtà virtuale e realtà aumentata, non può che smuovere qualcosa in noi, non può che farci sobbalzare all’idea di star vivendo nel futuro, d’altronde lo stesso termine fu inventato con un’accezione prettamente fantascientifica dallo scrittore Neal Stephenson nel suo romanzo Snow Crash del 1992.
Malgrado le roboanti dichiarazioni delle grandi multinazionali sul metaverso (la società Facebook ha addirittura cambiato nome in Meta, palesando il suo immenso progetto per gli anni a seguire di creare un vero e proprio metaverso) ora come ora esso rimane fantascienza, o, se vogliamo, qualcosa di molto simile a The Sims, videogioco del 2000 che prova a simulare, con i mezzi e le tecnologie che possiede, la vita quotidiana di avatar creati e mossi dagli utenti, seduti comodamente davanti ai loro personal computer.
Proprio per questo, se vogliamo addentrarci al meglio in questo concetto del futuro, che sta germogliando nel nostro tempo, dobbiamo affidarci a quelle che McLuhan definisce «persone dalla consapevolezza integrale»: gli artisti. Secondo McLuhan gli uomini dovrebbero convincersi che l’arte è una precisa conoscenza anticipata di come affrontare le conseguenze psichiche e sociali della prossima tecnologia, e ancora, come si legge nel suo Understanding Media (la traduzione italiana Gli strumenti del comunicare non gli rende affatto giustizia): «L’artista è l’uomo che in qualunque campo, scientifico o umanistico, afferra le implicazioni delle proprie azioni e della scienza del suo tempo. È l’uomo della consapevolezza integrale. Egli può correggere i rapporti tra i sensi prima che i colpi di una nuova tecnologia abbiano intorpidito i procedimenti coscienti.»
In Ipotesi Metaverso, mostra curata da Gabriele Simongini e Serena Tabacchi a Palazzo Cipolla di Roma, aperta al pubblico fino al 23 luglio 2023, ci si affida proprio agli artisti nell’ipotesi di un metaverso accennato, attendendo le grandi svolte tecnologiche che potranno metterlo effettivamente in pratica, su tutti il web semantico. Ma la mostra non guarda solo al futuro: a 16 artisti contemporanei che riflettono sulle nuove tecnologie, si affiancano altri 16 storicizzati, che in qualche modo creano una connessione con il loro futuro che è il nostro presente, la consapevolezza integrale di due, tre, generazioni fa.
Questa metodologia che può apparire vincente, che dà senso a tutta la riflessione su cui si fonda la mostra, però, in realtà, è anche un’arma a doppio taglio che dimostra quanto sia importante equiparare le qualità artistiche dei presenti alla mostra. Premesso che questa non è una critica alla mostra, ma anzi, un’ode, in quanto riconoscimento della sua capacità di aprire a ragionamenti nuovi sul concetto, forse, in assoluto più mutevole della nostra contemporaneità, le opere contemporanee dell’esposizione non reggono minimamente il confronto dei grandi maestri, soprattutto nella sua prima parte. Triangolare la serie delle Carceri di Giovanni Battista Piranesi (1749-1761), il Planetoide tetraedrico di Maurits Cornelis Escher (1954) e Aletide di Fabio Giampietro e Paolo Di Giacomo (2013), avvalora, ad esempio, il pensiero comune di un’arte contemporanea svuotata di senso, fatta per essere fruita come in un parco giochi, con quell’illusione ottica tutta tecnologica che affascina e fa sgranare gli occhi. L’opera di per sé ha senso e indubbie qualità, ma esse si sviliscono nel momento in cui lo stesso effetto, scevro di qualunque strategia superficiale di gamification, lo creano due artisti geniali come Piranesi e Escher, senza il bisogno di alcuna nuova tecnologia, ma solo attraverso la loro superficie piana e la percezione che essa crea nel nostro cervello, passando per il nostro occhio.
Gamification comunque funzionale alla percezione e all’estetica, a differenza delle due «opere» in realtà virtuale: Regenesis di Krista Kim e The Bacchanalian Ones di Federico Solmi. In entrambe le opere le tecnologie di realtà virtuale non sono né funzionali all’estetica, né indispensabili al senso. In entrambi i casi si ha la sensazione di star giocando ad un videogame neanche tanto interessante, e questo è un peccato, perché entrambe le riflessioni alla base della realtà virtuale, l’urbanistica che si trasforma in strumento di benessere il primo e l’utilizzo del grottesco, dello stravagante e dell’ironico in un pastiche postmoderno che riflette sul senso della Storia il secondo, sono focus molto affascinanti. Entrambi i lavori sono molto più ampi della mera fruizione della realtà virtuale con casco VR, ma proprio quel casco è punto nevralgico e punto debole di entrambe le esperienze.
Le sculture di Solmi, ad esempio, sculture in ceramica fatte con una tecnica antica, sono frutto di una tripla traduzione e hanno intrinsecamente una complessità di senso molto vicina allo spazio analogicodigitale in cui viviamo. I personaggi storici grotteschi, creati in 3D attraverso il computer e resi vivi, nella loro esistenziale smaterializzazione, nella realtà virtuale in cui entriamo attraverso il casco, ce li ritroviamo nella nostra realtà analogica, concreti e immobili, statue che si trasformano in idoli dello spazio altro in cui crediamo, al pari delle statue delle divinità dell’Antica Grecia.
Se questa, quella delle opere sopra-descritte, è la consapevolezza integrale su un tema così complesso come quello dello spazio analogicodigitale, e in particolar modo del metaverso, allora c’è ancora tanta strada da fare. Sembra che spesso gli artisti contemporanei si soffermino soltanto sulla punta dell’iceberg, una punta per lo più divertente e spensierata, fatta per i parchi divertimenti culturali, senza una vera profondità critica.
Ipotesi Metaverso, a cura di Serena Tabacchi e Grabriele Simongini, Palazzo Cipolla, Roma, 05.04 – 23.07.2023
immagini: (cover 1) Fabio Giampietro e Paolo Di Giacomo, «Aletide», ph Luca Perazzolo (2) Federico Solmi, «The Bacchanalian Ones», ph Luca Perazzolo