Proseguendo con la nostra analisi di Ipotesi metaverso, dopo le roboanti realtà altre fisiche a volte, digitali altre, entrambe insieme altre ancora, ci troviamo difronte all’opera che più di tutte riesce a rispecchiare l’uomo del futuro immerso nello spazio digitale ma ben ancorato a quello analogico. Si tratta di un’opera che conosciamo tutti benissimo: Forme uniche della continuità dello spazio di Umberto Boccioni, allo stesso tempo unione di materia e movimento attraverso l’atmosfera, ma anche mescolanza del corpo umano con l’ambiente che ha attorno, un ambiente che acquista sostanza, diviene parte della scultura, è fluido, invisibile ma reale, come lo spazio digitale.
Il concetto di velocità e di fluidità dell’epoca contemporanea, ben compresi dai geniali Futuristi all’inizio del secolo scorso, si adatta alla perfezione al concetto di realtà analogicodigitale, da cui il metaverso sboccia. Con le nuove e nuovissime tecnologie come estensioni del nostro corpo, siamo sempre più spesso esistenti in modo fluido ed eterodosso in più realtà contemporaneamente, realtà che si fondono in noi, bit volanti e velocissimi, come in una tempesta, che divengono parte effettiva della nostra realtà, mescolandosi ad una delle numerose nostre traduzioni numeriche che costantemente abitano lo spazio digitale, forma imperfetta del metaverso.
Proprio in relazione alla leggendaria Forme uniche della continuità dello spazio troviamo Memories of Passersby di Mario Klingemann. Due schermi che mostrano immagini di ritratti profondamente weird in continuo mutamento, da poter contemplare seduti comodamente su una poltrona. Le «forme uniche della continuità dello spazio» perdono la loro accezione legata al movimento, per divenire tangibili e stabili essenze digitali mosse da un mai stanco processore generativo di immagini. La relazione tra passato e presente, tra gli albori dell’epoca elettrica e gli albori di quella puramente digitale può essere esemplificata in queste due opere che si guardano.
Filippo Tommaso Marinetti, padre del Futurismo e teorico illuminato, era ben conscio del futuro che avrebbe aspettato l’umanità, come ci ricordano anche i testi della mostra: «l’uomo dovrà sapere in ogni istante, in ogni punto della terra, cosa fanno i loro contemporanei» ipotizzava, e riusciva ad immaginarlo guardando ai prodigi dell’elettricità e del motore a scoppio, prodigi puramente tecnici. Quello che ci mostra l’opera di Klingemann, invece, sono i prodigi estetici della macchina, la sua capacità attraverso l’intelligenza artificiale, non solo di essere perturbante in sé, profondamente ai suoi processi, ma anche di saperli esprimere con immagini a noi familiari eppure inesistenti, realistiche eppure velate dall’incomprensibilità delle forme.
A differenza della maggior parte delle opere in mostra, e più in generale delle opere che si servono dell’intelligenza artificiale, Memories of Passersby ha un’IA che non si serve dell’elemento fondante dello spazio digitale, il database, rendendo l’arte generativa creata in questo modo esteticamente più simile alla concezione umana che a quella del cyborg. Come leggiamo nella mostra: «Gli output visualizzati sullo schermo non sono combinazioni casuali o programmate di immagini esistenti, ma opere d’arte uniche generate dall’intelligenza artificiale. Il flusso di immagini presentato non segue una coreografia predefinita ma è il risultato dell’intelligenza artificiale che interpreta il proprio output; la natura complessa di questo tipo di feedback fa si che nessuna immagine verrà mai ripetuta».
Certo, il database non scompare del tutto dal processo, Klingemann proprio servendosi di esso ha addestrato la sua IA nella generazione di immagini. Il punto sta nel fatto che questo database è punto di partenza (com’è nella creazione artistica umana e analogica) dell’opera, ma non la svilisce diventando anche fine del processo, come accade invece, ad esempio, nelle opere di Refik Anadol, che a dirla tutta, sembrano essere proprio le opere d’effetto (e poco altro) che piacciono tanto a influencer, cultural influencer, aspiranti tali e soprattutto presunti tali.
Poco importa che contemporaneamente a questa mostra, Anadol stia esponendo al MoMA di New York, le sue opere “monumentali” eppure inconsistenti, con il loro tripudio di colori, sono una semplice tavolozza cromatica in continuo movimento, tautologia digitale della sua fluidità, caratterizzate da una certa vuotezza concettuale. In uno schermo vediamo la mole inimmaginabile di fotografie legate alla flora terrestre che l’intelligenza artificiale processa costantemente, e sullo schermo monumentale vediamo contemporaneamente queste immagini liquefatte, svuotate di senso, esemplificate ad affascinante astrazione senza pretese, decorazione spaziale che può sembrare meditativa, ma che, nello svelamento del processo (lo schermo che ci mostra le fotografie processate dal computer), si tradisce nella messa in mostra delle banali capacità computazionali della macchina. Qual è l’ipotesi metaverso in quest’opera? Uno spazio lisergico fatto di bit che guarda alla cultura hippie? Se fosse così, basterebbe pensare a come le contro-culture degli anni ’70 riuscivano a raggiungere lo stesso risultato cerebrale senza neanche un cavo elettrico.
… continua…
Ipotesi Metaverso, a cura di Serena Tabacchi e Grabriele Simongini, Palazzo Cipolla, Roma, 05.04 – 23.07.2023
immagini: (cover 1) Refik Anadol, Palazzo Cipolla, dettaglio, foto: Luca Perazzolo (2) Umberto Boccioni, «Forme uniche della continuità dello spazio», 1913, e Mario Klingemann, «Memories of Passersby», 2019, panoramica d’installazione a Palazzo Cipolla (2023), foto: Luca Perazzolo (3) Mario Klingemann, «Memories of Passersby», 2019, panoramica d’installazione a Palazzo Cipolla (2023), foto: Luca Perazzolo
Precedentemente su Arshake
F. Giagnacovo, Ipotesi Metaverso a Palazzo Cipolla, Arshake, 16.06.2023