Tecnologia intesa come discorso sull’arte. Arte come vita, come intesa da Beuys. Vita al servizio dell’arte, come intesa da Fabre. Un trapassamento perpetuo di barriere fisiche, psicologiche, espressive e sensoriali riflette nell’andamento della mostra al MAXXI la permeabilità del fare dell’artista belga; una permeabilità che si insinua nel proclama My body my blood my landscape e che risuona nel ping pong espositivo tra audio, video, documenti, citazioni, disegni e costumi di scena.
Stimmate del corpo come della mente, conseguenza della Passione di un artista che rivive nel personale martirio performativo la continua sospensione tra la vita e la morte. Nel segno di una citazione di tipo spirituale, l’interpretazione e la rielaborazione dei maestri fiamminghi rappresentano per Fabre il pane e il vino di un’eucarestia sempre in scena, che si nutre costantemente di richiami legati alla storia delle avanguardie, all’entomologia, alla medicina, alla filmografia, fino all’analisi della condizione sociale dell’artista.
L’arte di Fabre è un cerimoniale pre-crocifissione che l’artista propone al pubblico e che, parallelamente, è riproposto in mostra con uno stesso andamento rituale, attraverso l’esposizione che procede dagli archivi personali dell’artista, fino alle operazioni di re-enacted performative proposte in video. La mostra sfrutta naturalmente e sapientemente spazi e tecnologia, per creare un flusso di coscienza coerente tra le opere e esponendo in questo modo quarant’anni di «modelli pensanti», come definiti da Fabre, in cui le memorie esteriorizzate riattivano il flagello del corpo.
La mostra si risolve a partire dalle riflessioni critiche sul valore del denaro e sull’opera d’arte, avviate da Fabre dal 1978 con l’azione Money Performance, in cui le considerazioni sul potere del denaro nell’arte sono avviate attraverso il gioco linguistico e in ready-made duchampiano, per poi attraversare la teorizzazione della «Ball-pen art», posta in essere dall’autore belga attraverso l’irriverenza verso i maestri del passato (nella performance Ilad of the Bic-Art del 1980) e mediante l’atto claustrofobico e ossessivo della scrittura (in The Bic-Art Room del 1981).
La condizione dell’artista come «pianificatore dell’impossibile» è enucleata da Fabre nella scultura autobiografica e citazionale di The Man Measuring the Clouds, in cui il senso dell’equilibrio precario è un omaggio alla morte, al ruolo dell’artista e alla sua impresa del «misurare le nuvole», inevitabilmente destinata al fallimento. L’espiazione di un peccato, quello dell’essere artista, sembra giustificare l’azione di Sanguis/Mantis (2001), in cui l’auto-stillicidio rappresenta contemporaneamente il superamento dei limiti fisici, attraverso una messa in scena teatrale, e la presa di consapevolezza circa la condizione dell’artista, inteso come fallimentare «guerriero della bellezza».
La liberazione dell’arte dall’arte quindi, che parte dalle ispirazioni di epoca medievale dei maestri Van Eyck, Bosch e Brueghel il Vecchio, per arrivare a una liberazione che si insinua nelle viscere dell’artista stesso, indotto, ma non costretto, ad equipararsi alla figura del criminale, nella comune condizione di outsider. Performance è per Fabre un perforare se stessi, un attraversamento che dall’attore arriva alla mente di chi osserva, per ritornare nuovamente, potenziato di senso, al corpo dell’artista, nutrito ancora una volta dal proprio sangue, dalla propria arte.
JAN FABRE. STIGMATA. Actions & Performances 1976-2013, a cura di Germano Celant, MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo – Roma, 16 ottobre 2013 – 16 febbraio 2014, press@fondazionemaxxi.it
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